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“La Partecipanza”: Ivo Gigli intervista Giuseppe Chicchi

Il poeta e pittore riminese Ivo Gigli intervista Giuseppe Chicchi, autore del romanzo in libreria “La Partecipanza”, edizioni del Girasole, Ravenna, 2017.

Con questa tua nuova opera racconti una storia in stile realistico, una vicenda di personaggi del popolo immersi in uno scenario storico che va dalla nascita del fascismo all’inizio della seconda guerra mondiale.

«E’ un pezzo di storia vista “dal basso”, dal punto di vista di gente comune lontana dalla politica. Ho scelto questo particolare passaggio della storia italiana perché, in qualche modo, assomiglia alla fase attuale. Allora ci fu la crisi dello stato liberale che non seppe rispondere alle attese e al cambiamento dopo la prima guerra mondiale. Oggi si affaccia la crisi delle democrazie che faticano a rispondere alla nuova dimensione in cui si svolge la lotta fra le classi. Ragioniamo ancora alla scala degli stati nazionali quando ormai le decisioni che contano sono prese a livello globale. Ci mancano gli strumenti per muoverci a quel livello».

Perché il titolo “La Partecipanza”? Si tratta di un antico istituto risalente all’alto Medio Evo, un accordo fra i monaci dell’Abbazia di Nonantola, a pochi chilometri da Modena, e i contadini in base al quale nacque una proprietà indivisa di sapore “comunistico” ancora oggi in vigore.

«Il titolo evoca appunto una di queste esperienze di “comunismo dei beni” nate spesso ad opera dei religiosi. In Emilia ce ne sono ancora cinque o sei, quella di Nonantola è la più antica. Più note sono le “reducciones” realizzate dai Gesuiti in America Latina nel 1600 perché conosciute dal grande pubblico attraverso il film “Mission” del 1986. Esperienze represse nel sangue dai re di Spagna e Portogallo. Il titolo del libro vuole ricordare il valore della partecipazione in un periodo storico come il ventennio fascista e in un periodo come quello attuale in cui la “decisione” sembra prevalere sulla partecipazione. Potrei citare gli esempi di Turchia, Ungheria e Polonia, ma anche degli USA di Trump».

La trama del romanzo storico è vitalizzata dal “taglio” di due delitti politici e di uno scheletro seminascosto in un tetro bosco, da un intreccio ricco di varianti come le due figure femminili di Matilde e Angela, di Franco il comunista, dell’ebreo suicida, ecc.

«L’attentato a Mussolini a Bologna nel ’26 e il suicidio dell’ebreo nel ’38 sono una metafora della parabola del fascismo: dal tripudio bolognese del Mussolini vincitore che esce indenne dall’attentato, alle leggi razziali del 1938. Leggi che non hanno radici nella cultura di un paese come l’Italia da millenni aperto alle contaminazioni. Le due figure femminili di Matilde e di Angela sono un omaggio, spero efficace, alla forza delle donne».

Ogni capitolo è corredato da un trafiletto, una citazione che, per chi legge, è un trait d’union fra la trama e il suo tempo storico.

«Le citazioni servono a dare il “climax” del tempo in cui i fatti si svolgono. Ho pensato che la cosa migliore fosse di far parlare i protagonisti, così cito brevemente Sturzo, Gramsci, Giolitti, Nitti e altri. Cito ad esempio la lettera dell’Ambasciatore a Londra Carlo Sforza al Re d’Italia del 30 maggio 1940 nella quale supplica il Re di non firmare la Dichiarazione di guerra a Francia e Inghilterra e dice: ”…andremo incontro ad un disastro per le nostre armi e per la nostra patria”».

Il finale del libro è una sospensione drammatica dove si affacciano le leggi razziali, la fuga di Franco l’amico comunista, il confino per il protagonista, ecc. Il sentore della seconda Guerra Mondiale incombe come un grigio presagio. Hai dato all’opera una forma vorticosamente letteraria, una fotografia icastica di un tempo funesto.

«Il ritmo del racconto nasce da esigenze narrative, volevo che, dopo un avvio lento e riflessivo (la malattia di Amedeo), divenisse incalzante, che il tempo fosse veloce come veloci sono stati gli anni del fascismo: sembrava avere il consenso generale e sono bastati pochi errori per farlo crollare. Poca cosa sono stati i venti anni di Mussolini al confronto con i settanta della Repubblica, eppure ci sentiamo precari. Continuiamo a fare errori e a non imparare da essi. Ci consoliamo ogni giorno dicendo, come nel paradosso di Ennio Flaiano, che: “… il Meglio è alle nostre spalle!».

Ivo Gigli

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