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La crisi chiede più assistenza sociale: riusciremo a darla?

Traggo queste mie considerazioni dall’esperienza che ho avuto come Sindaco di Rimini per molti anni, sommata ad un recente articolo, comparso su una rivista di studi sanitari riguardante il Fondo per la Non Autosufficienza.

Ho sempre avuto la sensazione che gli uffici assistenziali dei Comuni – compreso quello di Rimini; non per colpa del Comune naturalmente – siano talmente articolati nei loro interventi da risultare spesso incomprensibili a un osservatore esterno.

IN PASSATO L’ASSISTENZA SI FACEVA COSÌ. La politica assistenziale del passato verteva su di un presupposto molto preciso, che ha sempre caratterizzatole politiche di centro-sinistra: la coesione sociale come elemento fondante dell’azione amministrativa e politica.

In altre parole, si tratta dell’attenzione che le pubbliche istituzioni devono sempre prestare a quelle fasce di popolazione che per svariate ragioni si ritrovino nelle situazioni di reddito più disagiate; chi vi appartiene, deve poter usufruire di quei contributi e attenzioni che gli permetta una vita almeno migliore.

Durante gli anni della mia amministrazione, che fino al 2007-8 non furono di crisi economica, questa esigenza di supporto assistenziale era certamente sentita, ma non ai livelli di oggi. Poi la lunghissima crisi che stiamo ancora vivendo ha quasi raddoppiato, se non di più, le richieste assistenziali allo Stato e agli Enti locali.

Ma prima di essa, l’intervento era articolato in parecchi sub-settori: anziani e anziani disabili, disabili di minore età con handicap, famiglie numerose, tossicodipendenza, famiglie in condizioni di povertà, contributi per affitto e rette scolastiche e tariffe per servizi, malattia mentale e altro ancora. E l’assessore di allora si muoveva con competenza e passione in questo mondo molto articolato, che occorreva conoscere bene.

Lo sforzo amministrativo fu diretto in tre direzioni: acquisire maggiori risorse possibili per le attività di supporto sociale descritto; robustissimo intervento per la costruzione di abitazioni destinate alle famiglie in difficoltà (oltre 2000 appartamenti fra edilizia popolare e privata convenzionata ); lo sviluppo adeguato delle strutture sanitarie (ospedali nuovi e nuove discipline) .

Ricordo sempre che l’allora presidente della Regione, Vasco Errani, aveva una attenzione speciale per il Fondo dedicato alla non autosufficienza (degli anziani) e le spesse volte che lo Stato abdicava a contribuirvi, ai Comuni fortunatamente arrivavano le risorse regionali.

IL FONDO PER LA NON AUTOSUFFICIENZA E LA CORTE DEI CONTI. Un recente documento della Corte dei Conti riporta che dal 2007 al 2015 il Fondo nazionale per la non autosufficienza (sostanzialmente destinato agli anziani disabili per l’età) ha erogato ben 2.3 miliardi di euro; ma i giudici contabili hanno evidenziato una “estrema disomogeneità nella diffusione dei servizi sul territorio”.
Per esempio, il Sud spende in media poco più di un terzo del Nord: basti confrontare i 282 euro pro capite nella provincia autonoma di Trento ai 26 euro a testa della Regione Calabria.

Ebbene, voglio affermare che questo differente comportamento di ogni Regione di fronte ai problemi sociali ormai risulta inaccettabile.
Ma dove è il coordinamento fra le Regioni? È inaccettabile un’Italia a 18 velocità, dove si ricevono servizi abissalmente diversi secondo la fortuna, o la sfortuna, di nascere in un luogo piuttosto che in un altro della stessa nazione.

Quello che mi ha colpito nel documento della Corte dei conti sono poi le differenze fra gli stanziamenti statali di ogni singolo anno: 2007, 100 milioni; 2008, 300; 2009, 400; 2010, 400; 2011, 100; 2012, 0 ( Governo Monti); 2013, 375; 2014, 350; 2015, 400.

Difficile immaginare che i bisogni cambino di così tanto ogni 12 mesi.
Ma soprattutto, come mai faranno le singole Amministrazioni Comunali ad affrontare i problemi, che tutti gli anni rimangono eguali se non in aumento, ad affrontarli con questi balletti delle cifre?

IL REDDITO DI SOLIDARIETA’ DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA (RES). È recente la Legge della Regione Emilia-Romagna approvata dall’Assemblea Regionale, che ha aggiunto di sommare ai 37 milioni forniti dallo Stato (sostegno all’Inclusione Attiva, misura di contrasto alla povertà introdotto dalla Legge di stabilità 2016 del Governo Renzi) i 35 stanziati dalla Giunta regionale per i nuclei familiari con un ISEE (Indicatore situazione economica equivalente) inferiore ai 3000 euro, circa 85.000 cittadini interessati. Entro 60 giorni il regolamento attuativo, con un reddito massimo mensile di 400 euro per un massimo di 12 mesi.

L’accesso al Res dovrà essere accompagnato da un progetto di attivazione sociale e inserimento lavorativo concordato con i cittadini maggiorenni che ne usufruiscono. Per accedere, sarà inoltre necessario la residenza in Emilia Romagna da almeno 24 mesi.

PRIMO PASSO, MA MOLTO DA CHIARIRE. Ritengo che questa legge regionale rappresenti un primo e molto importante passo verso l’inclusione sociale.
Ma solo il primo: ci vorranno i regolamenti e molti altri provvedimenti.

Il problema infatti, come abbiamo visto dal Documento della Corte dei Conti non dura solo un anno, ma assume un ruolo rilevante per molti anni a venire.

Spero dunque che nel regolamento attuativo vengano ampiamente coinvolte le Amministrazioni comunali, in particolare quelle dei capoluoghi di provincia. Cioè chi in concreto quell’inclusione sociale dovrà tentare di attuarla.

E spero che nel regolamento vengano prese in considerazione i numerosi contributi che le stesse Amministrazioni comunali forniscono ai loro cittadini; le abbiamo già accennate, dal sostegno per l’affitto alle tariffe agevolate dei servizi, dall’assistenza agli anziani e all’handicap, alle famiglia numerose, dalle madri e padri soli ai minori, e altro ancora.
Non è pensabile che possa esistere un’eccessiva frammentazione in tutti questi interventi.

Qualche ultima riflessione: nell’elaborazione del Regolamento per il Res occorreranno rapidità (i 60 giorni assegnati e non di più) e snellezza delle procedure.

Nella norma che prevede poi 24 mesi di residenza in Regione per poter usufruire del RES, si deve a mio parere chiarire con precisione cosa si intende per “residenza”: che sia quella vera e certificata e non un equivalente di difficile verificabilità, come la “residenza lavorativa”.

Inoltre vanno previsti i controlli a campione per valutare che le spese eseguite siano a favore di necessità reali e che le somme stanziate vadano a servire efficacemente l’integrazione sociale e lavorativa reale dei beneficiari.

Ma avremo modo di vedere nel tempo l’articolazione di questi progetti.

Alberto Ravaioli

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