Per questo nuovo anno di letture Chiamicittà.it consiglia Dizionario dell’abbandono di Francesco G. Capitani, edito da Scatole Parlanti sul finire del 2021.
Come scrive lo stesso autore, il libro “tratta dei luoghi abbandonati, ma non solo, o meglio sono un pretesto; coglie l’occasione per carpire di più dei traumi abbandonici umani – una sorta di galleggiamento metaforico fra anime e molecole, fra sangue e polvere, vivo e morto; scrivere di uno per dire dell’altro”.
Un itinerario che presenta sin dalle primissime battute una forte vocazione teorica, che si alterna poi a una crescente tensione narrativa. Personal Essay, direbbe forse oggi la critica, ma la cifra caratterizzante di quest’opera non è neppure la prima persona o le sue riprese in soggettiva, bensì il tentativo ambiziosissimo di applicare un pensiero filosofico, di interiorizzarlo o meglio ancora di incarnarlo: un racconto di Embodied Philosophy, azzarderei a definirlo, senza entrare nel merito del dibattito cognitivista, ma ponendo piuttosto l’attenzione sulla puntualità del sintagma. Forse il 2022 ci offre però un riferimento ancora più calzante: si tratta di quell’unicum costituito da La Divina Mimesis di Pasolini, di cui quest’anno ricorre appunto il centenario della nascita – l’opera che Dizionario dell’abbandono più mi ha ricordato.
Quella di Capitani, che da autore si fa anche narratore interno, è un’esperienza intellettuale anzitutto fisica e sensoriale, che sarebbe inimmaginabile da fermo, senza un dispositivo corporeo in movimento: poiché come Mandel’štam scrisse riguardo a Dante, “parlare è sempre essere in cammino”, e come ci ha insegnato Octavio Paz la metrica è già nel ritmo del nostro respiro ansimante, o liberatorio. Non a caso la poesia, in ogni sua possibile declinazione, è una presenza costante del percorso critico che, sintomaticamente, Capitani sceglie di principiare con un capitolo intitolato “Le occasioni” – ovvero la raccolta poetica più importante del primo Novecento italiano.
Se Pasolini aveva immaginato la sua catabasi in un Inferno Neocapitalista, Capitani intraprende d’altra parte un cammino terreno fra i luoghi profanati da una sacrilega “modernità efficientista”, attraversando errante come uno dei Bieguni di Olga Tokarczuk una Waste Land che scoprirà, invece, essere gravida di senso. Pollicino senza forza di gravità, scongiura però la deriva randomica del suo procedere lasciando cadere (o meglio, innalzarsi al cielo) le briciole preziose di un convivio d’eccezione, che vede seduti a tavola – fra gli altri – Camus, Woolf, Metastasio, Mendeleev, Hölderlin, Tarkovskij, Leopardi, Twain, Gaudí, Lloyd Wright, Kierkegaard, Gramsci, Russell, Prokofiev, Scarlatti, Lisippo, Weil, Keats, Borges, Jung, Baudelaire, Svevo, Cvetaeva, Plath, Truffaut, Pavese, Prévert ecc.
Una luminescente e coltissima “costellazione” di stelle polari, come direbbe Walter Benjamin, di fronte alla quale non ho potuto fare a meno di proseguire ulteriormente quelle “geometrie” di senso che appunto l’autore dichiara di voler scorgere, immaginando nuovi astri di cui saranno altri, un giorno, a svelare lo sguardo d’insieme. Dizionario dell’abbandono non si presenta infatti come un corpo chiuso in sé stesso, ma sembra suggerire uno spazio culturale a venire, come il segnale caldo di un Faro nel mare scuro. Offre un metodo, in fondo: un’intenzione autoriale per certi versi simile, ad esempio, a quella del meraviglioso capitolo Time Passes del romanzo To the Lighthouse di Virginia Woolf, di cui possiamo ricostruire la genealogia nel suo illuminante A Writer’s Diary.
[…] la zona di esclusione trascende l’aridità delle vite terrene e procura il riscatto a chi intendeva affrancarsi da esistenze tormentate (pp. 96-97).
Capitani si approccia ai suoi τὸποι abbandonati scorgendo nella loro architettura, come direbbe Adorno, il “contenuto sedimentato” di ragionamenti teorici ancora da formalizzare. E, nel suo speculare, compie due operazioni che fanno particolarmente bene al contesto italiano, così saturo di antropocentrismo, urbanesimo e sensazionalismo: si pone cioè in una posizione postuma, liminale e straniante, abitando una soglia periferica dalla quale decostruisce il nostro endemico “immaginario melodrammatico”.
Esiste un equivoco comune: i luoghi abbandonati non sono quelli dell’eccitazione, della paura o del misticismo; anzi, ho spesso provato fastidio nel trovare persone muoversi a gruppi, adolescenti o poco più, come fosse una scampagnata da filmare e da lanciare su qualche canale YouTube. Con ancora più fastidio ho visto associare le immagini a noti motivetti di trailer di film drammatici, e ancora peggio fanno le trasmissioni televisive a rendere popolare il gusto per l’esplorazione stravolgendolo dal senso intimista che lo permea: finiscono per trascinare le categorie dell’abbandono in luoghi sintattici troppo chiassosi (p. 27).
L’autore adotta inoltre uno sguardo critico rispetto al sinistro concetto di “piano regolatore”, correlativo oggettivo di una “modernità efficientista” sempre più conformista, mettendo il dito nelle piaghe di un dibattito pubblico di cui forse la pazzia è il “sogno” rimosso più eclatante: “tutto va per il meglio – scrive il poeta Dino Campana, rinchiuso in un manicomio – nel peggiore dei mondi possibili”. Capitani non è un “integrato”, certo, però neppure un “apocalittico”: a differenza dell’ultimo Byung-Chul Han, ad esempio, offre ottimi spunti di riflessione rispetto all’idea di smaterializzazione, senza cadere in un feticismo ottocentesco per i “non-oggetti” che incontra lungo la via, che pure descrive con una certa disinvoltura letteraria.
Da italianista, infatti, non posso esimermi dal lodare uno stile davvero notevole, che sa alternare diversi registri e velocità, fluendo senza mai replicare se stesso. Una scrittura che fa onore alla prosa saggistica intesa come genere letterario, oggi più che mai insidiata dall’imperialismo dell’Academic English – basta studiare per pochi mesi in una Università anglosassone per rendersi conto di come, per quell’impostazione omogenizzante, l’originalità sia più uno spauracchio che un aspetto da valorizzare. Se è vero che la tradizione tutta italiana del “tema libero” a scuola tanto ha nuociuto in termini di analfabetismo funzionale, d’altra parte Roberto Calasso non è Andrea Battistini, Carla Lonzi non è Benedetto Croce, Roberto Longhi non è Teresa de Lauretis, e il fatto che la loro scrittura sia ben distinguibile al di là dei temi trattati resta ancora oggi un dato significativo, come significativa è appunto la “forma” esperita da Capitani.
Non al livello del resto, forse, è invece il capitolo “Il cimitero”, e in particolare il dialogo immaginario che il narratore imbastisce con i vari nomina/omina evocati al suo cospetto, che mi ha ricordato con un sorriso di quando, a diciott’anni, imbevuto di un incompreso Romanticismo inglese, trascorsi diverse ore nel cimitero di Chislehurst blaterando i versi di Edward Young. Più in generale, poi, la scrittura sembra tradire qua e là un’implicita zona d’ombra in relazione al femminile, un po’ come Aby Warburg e il suo enigmatico rapporto con la figura della Ninfa, poi esplicitato da Didi-Huberman. Ma è sempre rischioso, giova ricordarlo, affidarsi alle suggestioni di una diegesi che è in tutto e per tutto finzionale – sebbene funzionale a una riflessione teorica – e appartiene al narratore interno della vicenda, prima ancora che al suo autore. Chiudendo per epanadiplosi l’iniziale riferimento a La Divina Mimesis, infine, non sarebbe forse guastata un’appendice fotografica, o meglio come scrive Pasolini una Iconografia ingiallita, che abbia avuto “la logica, meglio che di una illustrazione, di una poesia visiva” – per chi volesse approfondire, ne ho parlato in maniera più distesa nel mio saggio Barocco postmoderno.
Tutto questo per dire, in ultima analisi, che Dizionario dell’abbandono è un testo che non si concede affatto a una lettura monouso, come invece fanno senza opporre alcuna resistenza gran parte delle recenti pubblicazioni – e, purtroppo, anche molte di quelle che si presentano come “serie”.
Da studioso di Anna Banti (e, indirettamente, Henri Michaux), mi è subito venuto in mente che si sarebbe potuto intitolare anche – con inalterata efficacia – Je vous écris d’un pays lointain, di cui nel congedarmi vi riporto giusto qualche verso:
Je vous écris du bout du monde.
Il faut que vous le sachiez.
Souvent les arbres tremblent.
On recueille les feuilles.
Elles ont un nombre fou de nervures.
Mais à quoi bon ?
Plus rien entre elles et l’arbre, et nous nous dispersons, gênées.
(Henri Michaux)
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Edoardo Bassetti