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Jackie, dalla tragedia al mito

Alla sterile cronaca subentra la narrazione del cinema: Pablo Larraín, con lo stile che lo contraddistingue, tenta di colmare il silenzio che la grande Storia lascia interposto fra un avvenimento e l’altro, ricostruendo i moventi psicologici d’ogni singola decisione, i discorsi i dubbi e le passioni che hanno accompagnato anche il più insignificante dei gesti di Jacqueline Kennedy, all’indomani dell’uccisione del marito.

L’ottima musica di Mica Levi, pervasiva come raramente accade nel cinema, scandisce con veemenza il ritmo di una vita interiore, turbata e destabilizzata da un indicibile shock emotivo; apre, nelle maglie lineari e indistinte del tempo, lo spazio di un altro tempo: quello ciclico e rassicurante del ricordo, che riemerge continuamente nel presente, dando nuovo significato alle gesta della first lady.

È in questo senso che potremmo quasi parlare di una tecnica narrativa simile al flusso di coscienza modernista, che alterna il tempo cronologico a quello interiore, la sfera privata a quella pubblica. Un montaggio alternato che destabilizza i rapporti di causa ed effetto, e subordina fatti eclatanti a dettagli apparentemente minori – come ad esempio la simbolica scena in cui Jackie non riesce a togliersi la fede dal dito.

Un’alternanza che viene riproposta anche in occasione del White House Tour trasmesso dalla CBS – la prima volta in cui la Casa Bianca aprì i suoi battenti all’occhio indiscreto del pubblico televisivo, sancendo l’inizio della politica come spettacolo: ora il colore ora il bianco e nero, nel più canonico dei tòpoi meta-cinematografici (cfr. ad esempio La Ricotta di Pasolini), testimoniano le tendenze contrastanti d’una personalità dissociata: da una parte la moglie timida e insicura che guida la telecamera all’interno delle sale presidenziali, dall’altra la donna dura e indecisa, egotistica, che organizza i funerali del marito o s’impone con alterigia sul giornalista che la sta intervistando in casa.

John Fitzgerald Kennedy puntava i piedi e storceva il naso quando vedeva la sua Jackie spendere una fortuna in feste e arredi costosi: la accusava d’eccessiva vanità, di spendere inutilmente i soldi degli americani. Eppure, rispondeva lei, gli oggetti e le opere d’arte durano assai più a lungo delle persone, e i cittadini statunitensi meritano il meglio. E anche lui, JFK, merita il meglio: merita cioè di durare più a lungo dei comuni mortali.

Jacqueline Kennedy distribuisce con grande maestria l’immagine del proprio dolore, costruendola ma anche de-costruendola progressivamente, cioè ideando quel continuo darsi in pasto al pubblico che è in realtà una via di fuga da se stessa e dal dolore che l’attanaglia. Il corteo funebre diviene allora una vera e propria opera d’arte, studiata nei minimi particolari: tutto è volto a creare dell’immagine di JFK appena assassinato un’icona, e quindi un mito eterno.

Sul palcoscenico non si può provare un dolore reale, e Jackie sceglie quindi di esporsi con coraggio al mondo intero, coi due suoi bambini al fianco, per rendere omaggio al marito e colmare il vuoto che ha lasciato in lei, finendo inevitabilmente per autocelebrarsi: tutta quella messa scena, come la stessa Jackie ammetterà, è più per lei che per suo marito.

Natalie Portman, dopo la nomination come miglior attrice protagonista al Premio Oscar, si candida sontuosamente alla vittoria, grazie ad un’interpretazione magistrale che è sufficiente – da sola – a rendere Jackie uno dei migliori film del 2016.

Edoardo Bassetti

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