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Il birro riminese tra la gioia di vivere e l’assurdo

Guido Nozzoli, tanti anni fa, aveva con la bravura che lui solo possedeva, tratteggiato la figura del “birro” riminese. Ne era uscita fuori una tipologia umana spensierata, ricca di gioia di vivere, sempre pronta a mettere l’assurdo a servizio del piacere narrativo.

Come per tanti altri personaggi, cari al cuore del popolo, all’origine di ogni impresa compiuta dal “birro” era rinvenibile un’allegra vendetta della fantasia sopra la dura, pesante, deprimente realtà. Il “birro” che passava impunemente dalla conquista di una biondissima ed altissima svedese, alla nottata sulla spiaggia trascorsa in compagnia di una giovane operaia di Sesto San Giovanni, viveva in assoluta indipendenza da ogni legame col mondo degli esseri comuni. Il suo passare di avventura in avventura, quel suo modo di affrontare la vita senza guardare né a destra né a sinistra necessitava di una spensierata ed inesauribile vena di ottimismo.

Gli anni cinquanta e in parte anche gli anni sessanta, hanno permesso ai giovani riminesi di vivere relativamente “riparati”. C’erano sì coloro che approdavano alla FUCI, come c’erano quelli che nelle cellule del PCI discutevano e andavano in crisi per i fatti di Budapest o per quelli praghesi, ma i più si davano appuntamento all’Embassy Club e lì, nel giardino della villa, trasportati dalle note di Renato Carosone, Hengel Gualdi, Mario Pezzotta, Righi-Saitto, Bruno Quirinetta, Lello Tartarino, Bruno Martino, Fred Buscaglione e gli Asternovas, con l’abito blu, confezionato dall’abile sarto Pinton, cercavano di emulare le incredibili performances dei “birri” più accreditati: Jimmi Cavallo, Vincenzo Paolini, Kino Zamagni e per tutti, alla fine, c’era il momento di gloria.

Alberto Miliani

Erano anni in cui ogni cosa era rivolta all’esterno, era un mondo extravertito, come si dice in psicanalisi in cui tutti erano impegnati nel prodigarsi, nel correre dietro alla vittoria. Nella biografia del “birro” come in quella del campione sportivo null’altro ha valore ed è degno di ricordo se non il tempo trascorso nella competizione. Sarebbe facile, a questo punto, tuffarsi nell’aneddotica (tra l’altro abusata) e dire di come, sulla spiaggia, i brusii, le grida, le risate cessassero per incanto allorché Pippo “Bindilein” toccava la riva e scendeva dalla sua canoa mostrandosi nella monumentalità di un fisico tarzanesco con le donne che se lo divoravano con sguardi avidi e lascivi. Sarebbe ripetitivo raccontare dell’incontro ravvicinato che Vincenzo Paolini ebbe con Francis “Faccia d’angelo” Turatello, a causa di una femmina, naturalmente bellissima e fatale.

Sarebbe cadere nel luogo comune, ricordando Ivo Del Bianco, riproporre le di lui incomparabili gesta di tombeur de femmes, narrare della sua ineguagliabile classe. Sarebbe inutile riesumare il rosario di trovate saporose, di aneddoti, di facezie, di avventure che hanno caratterizzato l’esistenza di “Gnagno”, il prototipo più autentico dei bagnini riminesi.

E’ curioso notare come grazie a questi eroi calati in un vero e proprio alogismo storico Rimini sia riuscita a costruirsi una sua icona nell’immaginario collettivo di tutta Europa. Ripensandoci ora, mentre l’angoscia di vivere in una spietata fortezza capitalistica e militare, mi assale, mentre maledico l’imbarbarimento in cui è caduto il nostro paese e guardo con terrore i volti dei politici intollerabilmente cannibaleschi, il ghigno dei plutocrati i quali, congiuntamente, tentano di imporre la propria Weltanschauuung o leadership in nome del consumismo e del profitto a gruppi e classi ed individui che non la richiedono ma con ebetudine la subiscono, mi trovo a rimpiangere quegli anni lontani. Tenere a bada la morte con la poesia del ricordo era un tema caro ad Angelo Maria Ripellino.

Il “birro”, in questo momento, pur nella sua minimalistica funzione, nella sua contingentata temporalità, mi appare come una partecipazione entusiastica e creativa, la cui essenza (naturalmente filtrata dal ricordo) è contigua alla poesia. Al fondo di ogni creazione c’è la nobile illusione di salvare il mondo. Chissà che il ricordo di un tempo stolidamente ingenuo “in termini banali non possa esserci d’aiuto, non possa darci la salvezza procurando sulla nostra scabra pelle di fantocci meccanici una ferita di gioia?”. 

Enzo Pirroni

(Nell’immagine in aperura: Giorgio Cicchetti)

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