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“Non chiamatemi poetessa, le mie sono solo storie di vita vissuta” (Giuliana Rocchi)

Non chiamatemi poetessa, le mie sono solo storie di vita vissuta”. Parole ricorrenti per la santarcangiolese Giuliana Rocchi, classe 1922, con le quali affermava con forza che ciò che scriveva veniva dal suo corpo, dal suo vivere, dal suo essere donna e operaia. Questo era in primo luogo Giuliana: una donna e un’operaia, non solo perché lo era stata nella vita ma perché sentiva di esserlo sempre e comunque, e ciò per lei andava portato come un distintivo, applicato sul petto dove batteva un grande cuore. Chi l’ha conosciuta può solo confermarlo, perché ha dato tanto al proprio paese, alla propria gente, alla propria famiglia, perché in lei dare e fare erano connaturati e la naturalezza con cui si prodigava era sconcertante.

A vent’anni dalla morte, (è scomparsa a Rimini, a Villa Assunta, nel marzo del 1996), la sua città le dedica, dal 10 al 18 settembre, otto giorni di riflessioni, approfondimenti, ricordi, riletture sotto forma di nuove creazioni, che intendono dare continuità al suo spirito creativo e a quello rappresentato dai poeti e dai letterati santarcangiolesi che hanno segnato la storia della città e della letteratura italiana. Il contenitore è stato intitolato Cantiere poetico per Santarcangelo (la prima edizione, che ha reso omaggio al poeta Raffaello Baldini si è tenuto nel 2015), e “da subito ha evitato di innescare processi di commemorazione”, come evidenziano i curatori Fabio Biondi e Stefano Bisulli. E’ noto ai più che a Santarcangelo, dalla fine degli anni ’40 e a seguire, si è registrato un fiorire di belle menti, in un fermento poetico e letterario unico nel panorama italiano. Basti citare il gruppo composto dai poeti e scrittori Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Flavio Nicolini, Gianni Fucci e dai pittori Federico Moroni e Giulio Turci, ironicamente autodefinito E’ Circàl de’ Giudéizi (Il Circolo del Giudizio) a cui si deve l’accensione di quel fuoco artistico che qui ancora arde. Pier Paolo Pasolini, se ne interessò e scrisse a Tonino Guerra, capostipite di quella che verrà chiamata la Scuola di poesia dialettale santarcangiolese, per congratularsi di aver scelto la lingua dei padri e averle dato la dignità di lingua poetica. Contestualmente la giovane popolana Giuliana Rocchi, che abitava nelle contrade del borgo medievale, ritenute ricettacolo di miseria e ignoranza, imparava dal padre l’arte di comporre le satre. Sosteneva che erano pensieri e li annotava sulla carta riciclata, spesso quella gialla dei cartocci per gli alimenti. Raccontare per lei era come indossare la giubba di suo padre, uno di quei fulesta che la sera nelle aie e nelle stalle era chiamato per far sognare e trasportare i contadini nel tempo e nello spazio di storie lontane. Come il babbo, conosceva l’incanto della narrazione, consapevole della potenza del racconto ma anche del piacere di trasmetterlo. Era generosa, si sapeva donare col lavoro e con le parole, e si felicitava del godimento altrui. Le bastava poco, del resto era vissuta sempre tra gli stenti e anche nel dolore. Aveva perso la madre da piccola, così il fratellino, da grande fu la volta del padre, poi della sorella, l’amata Nanda, sua compagna di giovinezza. Era rimasta legata anche ai maestri di scuola che l’avevano apprezzata per l’acutezza dell’ingegno ma in quarta elementare fu strappata dai banchi perché servivano le sue braccia. Durante il ventennio scelse senza esitazione da che parte stare e anche dopo. Finita la guerra indossò il fazzoletto rosso e lottò con le altre operaie dell’Arrigoni di Cesena prima, del linificio di Viserba poi, infine della corderia nella sua città, per i diritti minimi, e sgobbò, lasciando per sempre nella fabbrica la sua salute e gli anni migliori.

Il tempo della gioventù era stato breve per lei e anche traditore perché il suo grande amore, ricambiato fino all’ultima notte prima delle nozze, era partito per sempre alla volta di Milano, dove una del suo rango (al tempo la distanza di classe aveva il suo straripante peso), l’aspettava per il matrimonio. Quanta passione per quel ragazzo, che tante lettere le inviò, e lei conservò sempre fino alla morte di lui, quando le uso per accendere un fuoco davanti alla sua tomba perché ormai come disse, “non aveva più alcuna importanza tenerle”. Esile e piccina di statura, dava prova di una forza infinita, interiore e fisica. La dimostrò anche quando, nel ’64, chiusa la fabbrica e gettata sul lastrico insieme ad altri 150 operai, andò a servizio dalla famiglia di un giudice, a Rimini, che amò come fosse la sua. Vi restò per dieci anni finché un’altra tragedia familiare la chiamò a vestire i panni di mamma. Un’altra sorella era morta prematuramente e lei si sentì in obbligò di accudire i nipoti e il cognato che vivevano a Gambettola. Sapeva amare, al di sopra tutto e oltre tutto.

Fu la santarcangiolese Rina Macrelli, scrittrice, sceneggiatrice, aiuto regista tra gli altri di Michelangelo Antonioni e Liliana Cavani, a voler pubblicare i suoi versi. Giuliana inizialmente si ritrasse ma dovette arrendersi e accettare di dare alle stampe La vóita d’una dòna, nell’80, editore Amanda di Roma. Più tardi l’editore Maggioli ristampò la raccolta che suscitò grande ammirazione, fino a farla diventare l’emblema femminile della Santarcangelo poetica. Ma fu anche il riscatto della lingua madre, quella delle contrade, delle operaie, delle donne senza voce e di tutti coloro che la utilizzavano giorno dopo giorno.

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E lei, unica donna della Scuola di poesia santarcangiolese, prototipo delle femmine con il piglio maschile, (che portano i soldi a casa e faticano senza sosta, che le facevano dire  “mio padre era fiero della mia grinta da uomo”), di lingua ne ha usata sempre soltanto una, autentica e rigorosa. Una lingua “senza mediazioni, non di ritorno”, come scrive nell’introduzione della ristampa dei suoi due primi volumi, la docente a Urbino Tiziana Mattioli, volume che sarà presentato il 16 settembre a Santarcangelo, con l’introduzione di Rita Giannini e le letture di Nicoletta Fabbri. Una lingua che il poeta Nino Pedretti, suo grande amico (da non peredere la poesia che gli dedicò) andava ad ascoltare seduto sull’uscio di Giuliana, per poterla scrivere al meglio.

Se la sua poesia è scritta nel santarcangiolese autentico delle contrade, che Giuliana usa con autorità assoluta, in essa c’è senza retorica tutta la drammaticità della sua esistenza e così quella dei suoi simili. Drammaticità che la Rocchi non legge mai con disperazione, ma con la dignità e la positività che le sono proprie. Il suo sguardo è sempre a Levante, tutto deve sempre ricominciare, non c’è tramonto. Occhio vigile e lungimirante che è forza e gioco vitale, proprio come i suoi componimenti, sempre spontanei mai studiati. E il dialetto per lei è la lingua unica, del lavoro, dell’amicizia, della solidarietà, della denuncia, non dell’indifferenza, del potere, dell’estraneità, che lei rigettava con impeto. Non è un caso che al ritorno da Gambettola, la sera, già ammalata,  raccogliesse fondi per la Società Operaia di Mutuo Soccorso, che andasse ad aiutare i vecchi soli e accudisse certi vicini problematici.

Quando arrivò il tempo del secondo libro: La Madòna di Garzéun, 1986, Magioli Editore, ormai tutti in Romagna la conoscevano, l’avevano vista in televisione, sentita declamare. E anche da fuori regione le scrivevano, lo fece anche il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, ringraziandola e complimentandosi con lei. “Che onore e che gioia, ma non certo meritata”. Fu il suo commento. Si chiedeva il perché e si dava anche la risposta, come si legge nella prefazione della seconda raccolta. “Perché io voglio bene a tutti […] perché la mia porta è sempre aperta […], tanto che mio padre, casa nostra, la chiamava la stazione”.

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In quel periodo ha conosciuto gioie mai provate ma per Giuliana tutto continuava ad essere sempre una sorpresa, “io non faccio altro che raccontare la vita”. E continuava a farlo raccogliendo molto materiale. Così si poté pubblicare il “terzo libro”, come lo chiamava lei, purtroppo uscito postumo nel 1998, sempre con l’editore Maggioli. Non lo vide ma con determinazione volle affidarlo all’amica Rita Giannini, a cui aveva donato tutte le sue carte, “al coerti pérsi” le chiamava e contenevano inediti, dediche, ricordi, filastrocche, appunti in versi che sono stati in grado di strutturare più sezioni capaci di leggere una Giuliana dall’aspetto ancora più sfaccettato e ricco. Titolo Le parole nel cartoccio, perché quei foglietti sparsi erano spesso pezzi di carta riutilizzata su cui scorreva una calligrafia dritta e retta, eredità scolastica ma nel contempo indice di un carattere sicuro e volitivo.

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E’ anche grazie a questi tre testi, letti e amati da critici e intellettuali di varie generazioni, che oggi la fiamma di Giuliana Rocchi brilla ancora forte e tiene acceso il mondo e le storie che ha cantato nelle sue liriche. Una prova certa è la grande adesione alla serata speciale in suo onore, che si terrà il 13 settembre, alla Rocca Malatestiana, riaperta per l’occasione. E’ una chiamata pubblica con decine di lettori, tutti cittadini comuni, che hanno deciso di declamare i suoi versi. E alcuni di essi ripeteranno l’azione al Convento delle S.S. Caterina e Barbara il 17 e il 18 e anche questa sarà una gradita occasione per visitare l’ampio complesso e i suoi preziosi incanti. E senz’altro da non perdere la serata di sabato 10 in cui sarà proiettato il corto sulla sua vita Noèda par dispèt (Nata per dispetto) di Stefano Bisulli e testi di Rita Giannini. Per chi fosse interessato, l’intero programma del Cantiere poetico per Santarcangelo dedicato a Giuliana Rocchi, si trova sull’omonimo sito.

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