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LA RIFORMA COSTITUZIONALE, LA FINE DEL FEDERALISMO E IL RITORNO ALLO STATO CENTRALE.

Se la riforma costituzionale sarà definitivamente approvata ci troveremo di fronte al ritorno del vituperato centralismo dello Stato a discapito di quel federalismo che le Regioni avevano acquisito con la riforma del 2001. Sia chiaro: visti i risultati, la sua scomparsa di per sé non costituisce un fatto del tutto negativo. Ciò che non va, però, è la non veritiera propaganda elettorale dei sostenitori della riforma che, da una parte, decantano una “maggior chiarezza nei rapporti fra Stato e Regioni” e dall’altra “l’aumento della rappresentanza degli Enti Locali in Parlamento e in Europa”.

Mettiamo, quindi, un po’ di ordine agli slogan. Indubbiamente faremo maggior chiarezza nei rapporti fra Stato e Regioni: il primo legifererà su tutto mentre le seconde, di fatto, su niente.

Giova ricordare che attualmente, è prevista sia la “legislazione concorrente” delle Regioni, cioè il potere di quest’ultime di legiferare su determinate materie nel rispetto dei principi fondamentali previsti dallo Stato e dalla Costituzione, sia la cosiddetta “legislazione esclusiva residuale”, che prevede un potere legislativo esclusivo in capo alle Regioni su quelle materie che non rientrano nella legislazione esclusiva e concorrente dello Stato.

Con la riforma costituzionale lo Stato si riprende la competenza “esclusiva” su moltissime materie che oggi sono tipicamente regionali (il controllo del territorio, ad esempio) anche se solo per “dettare disposizioni generali e comuni”. E che accidenti sono queste disposizioni generali e comuni, se non un modo come un altro di creare ancora più confusione nell’attribuzione di competenze? Non certo, con tale dicitura, supereremo l’enorme contenzioso fra Stato e Regioni.

In più, da una parte, è completamente eliminata la “legislazione concorrente” che torna in capo allo Stato e, dall’altra, è specificata una “legislazione esclusiva” delle Regioni che lascia abbastanza perplessi, quasi fosse quella delle “varie ed eventuali”: rappresentanze delle minoranze linguistiche (!) oppure di promozione dello sviluppo locale (probabilmente aprire uffici di corrispondenza in ricche capitali europee). Non pago, lo Stato si mantiene per se una clausola salvacondotto di modo che i legislatori regionali non diano troppo spazio alla propria attività legislativa: infatti, qualora “lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”, il Parlamento centrale o chi per lui può legiferare in materie non di sua diretta attribuzione o, addirittura, di esclusiva competenza regionale. Un esempio concreto: la trivellazione in mare.

Non si può nemmeno tacere una critica allo slogan che decanta maggior rappresentanza degli enti locali in Parlamento e in Europa. Pare ci si riferisca al Senato, essendo la famosa Camera delle Regioni. Orbene, il Senato riformato non avendo potere legislativo, non potrà produrre leggi in attuazione a direttive Europee. Per legge, quindi, zero voce in capitolo su Europa e annessi. In più raccontare che il Senato è il luogo delle rappresentanze regionali è quasi più giusto in punta di ironia che in punta di diritto. Infatti sarà composto da cinque senatori nominati dal Presidente della Repubblica per “altissimi meriti in campo sociale, artistico, scientifico, letterario”, la cui provenienza territoriale non dovrebbe contare nulla nel pedigree. I restanti 95 in base alla popolazione delle Regioni, scelti fra consiglieri regionali o sindaci i quali, notoriamente, sono più espressione di un territorio che di una Regione, e ai quali guarderanno con favore al momento di assumere decisioni o iniziative. Altroché Camera delle Regioni, ci troveremo di fronte ad una Camera dei localismi!

Si diceva, dunque, all’inizio della bugia che pervade la propaganda sul ritrovato ruolo degli enti locali. Ma, forse, è una bugia voluta per nascondere l’ulteriore riduzione di spazi di democrazia che sembra l’unico vero filo conduttore di questa riforma costituzionale: non paghi dell’abolizione delle Provincie, ci ritroveremo con Regioni depotenziate che disturberanno meno il Capo del Governo nell’esercizio del suo potere. Alla fine diventeranno una sorta di Super-Provincia, con l’unico scopo costituzionale di coordinamento fra i vari Comuni, con l’obbligo di adottare decisioni prese da altri. In più, al loro interno, saranno dilaniate da rivendicazioni territoriali che non troveranno rappresentanza nella fantomatica Camera delle Regioni. Ma il “divide et impera”, si sa, funziona dai tempi dei Romani.

Giovanni Benaglia

Nato a Rimini il 31 maggio 1977, laureato in Economia e Commercio e iscritto dal marzo 2005 all’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili e all’Albo dei Revisori dei Conti. Ha  fatto parte Consiglio Generale della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini dal 2006 al 2011. È stato Sindaco revisore in diverse società, cooperative e consorzi e sindaco supplente di Banca Carim. Ho avuto esperienze anche come liquidatore, commissario liquidatore in liquidazioni coatte amministrative di cooperative, curatore fallimentare presso il Tribunale di Rimini. Collabora con diversi giornali e riviste tra le quali Il Fisco, TRE – Tutto Rimini Economia, La Tribuna Sammarinese e altri giornali e blog del settore.

(foto di Marco Montanari) 

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