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Francesca e Paolo: virtù o colpa?

Leggo con piacere l’articolatissimo programma (trenta eventi) dell’iniziativa “dantesca” dedicata alla figura di Francesca da Polenta, meglio nota come Francesca da Rimini, icona “del bacio e della fedeltà…simbolo di libertà e di affermazione di diritti”.

E’ una proposta del vulcanico amico Ferruccio Farina, assunta e finanziata da Regione Emilia-Romagna, Apt-Servizi e Comune di Rimini. Punti di forza di questo programma sono l’universale conoscenza della vicenda narrata da Dante nel V Canto dell’Inferno e l’enorme produzione artistica che da quei versi è nel tempo scaturita in tutti i paesi.

Da vecchio professore di italiano mi sia però consentito richiamare l’attenzione su alcuni aspetti non secondari dell’incontro di Dante e Virgilio con Francesca.

Dante, durante l’esilio in Romagna, a Forlì e a Ravenna, conosce la storia di Paolo e Francesca. Paolo proviene dalla famiglia Malatesta che, già ai tempi di Dante, non godeva di buona fama. Ne parla in altri due passi della Commedia: Malatestino dell’Occhio fa uccidere a Focara gli ambasciatori di Fano (I. XXVIII)); il Mastin Vecchio da Verucchio conquista Rimini nel sangue (I. XXVII).

Dal delitto compiuto da Gianciotto Malatesta, il Poeta trae una pagina immortale dedicata all’amore. Va però sottolineato che nel V Canto, come nell’incontro con Brunetto Latini, Dante agisce su un doppio registro, separa il giudizio sulla colpa (l’adulterio), da quello sulla persona. Brunetto Latini è condannato all’inferno perché sodomita, ma Dante, mentre lo condanna moralmente, lo esalta come Maestro (“… m’insegnavate come l’uom s’etterna”, I. XV).
Gli adulteri, coloro che hanno tradito il vincolo del matrimonio, stanno espiando la colpa ma, nel medesimo momento, affermano la “gentilezza” del loro cuore (“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende”) e la forza incontenibile dell’amore (“Amor, ch’a nullo amato amar perdona”). Sentiamo in questi versi l’eco della “teoria d’amore” dello Stil Novo e della eredità provenzale: “Al cor gentil ripara sempre amore” (Guinizzelli); “Amore e cor gentil sono una cosa” (Dante, Rime).

Dante è dunque fermo ai temi poetici della giovinezza?
C’è dunque qualcosa di oggettivo, qualcosa di inevitabile, nel percorso dell’amore? Ne deriva una forma di giustificazione della colpa commessa?

I critici si sono duramente impegnati su questo punto del Poema, per coglierne appieno il significato occorre però riferirsi alla Dedicatoria della Commedia, l’Epistola a Cangrande della Scala nella quale Dante, in latino, scrive che la Commedia non nasce da ragioni contemplative o filosofiche, ma da ragioni morali: “…allontanare i viventi…dallo stato di miseria spirituale per condurli alla salvezza…”. Alla luce di questo obiettivo morale dobbiamo leggere i singoli episodi del Poema. Così Dante è colpito dalla potenza del sentimento d’amore, ma nella sofferenza dei due amanti vede anche il limite delle teorie d’amore dello Stil novo. Nel XXII del Purgatorio, vv. 10-12, dirà qualcosa di più:
“………Amore/
acceso di virtù, sempre altro accese/
pur che la fiamma sua paresse fore.”

L’amore, stimolato dalla virtù di chi ama, diffonde virtù negli altri. Quindi l’amore di Paolo e Francesca, i peccatori, non ha saputo essere mezzo di salvezza perché è stato ricco di passione ma non “acceso di virtù”. Quella forza che li portò all’adulterio, era incontrastabile ma povera di virtù, perciò li ha condotti nel luogo di perdizione.

Per capire cosa Dante intendesse per “virtù” o, al contrario, per “stato di miseria spirituale”, è utile andare al XXXIII del Paradiso, all’Orazione di S.Bernardo alla Vergine:
“..tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che il suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.” (P. vv. 4-6)

Dunque l’umanità si può nobilitare fino al punto che Cristo, “il fattore”, accetta di diventare “fattura” di un essere umano. Che in Dante ci sia già un segnale di umanesimo?

Un consiglio: per cogliere meglio il “nodo” teologico connesso al tema della potenzialità umana nella ricerca della virtù morale, si vada a rivedere l’affresco della Scuola riminese del Trecento nel campanile di S.Agostino, noto come “Dormitio Virginis” (nell’immagine in apertura).

Giuseppe Chicchi 

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