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Ferragosto nel silenzio: ecco gli itinerari per chi cerca la pace

Ferragosto è allegria, spensieratezza, feste in spiaggia, cocomerate e cene con gli amici. Ma è obbligatorio che sia così? Proprio quando il mare della riviera romagnola attrae più gente, sono in tanti a pensare, con Tonino Guerra, che “la solitudine tiene compagnia”.

Già, ma dove trovare silenzio e tranquillità dove si legge solo “tutto esaurito”? Ebbene, è più facile di quanto si pensi. Perché una delle virtù meno conosciute della riviera è di custodire luoghi dove pare essere in altri pianeti rispetto a quelli della movìda. E che invece sono a pochissimi chilometri dal mare. Ecco allora qualche consiglio per un Ferragosto fuori dalla pazza folla.

Cominciamo con l’andare alla scoperta di Granarola. Minuscolo borgo medievale che faceva parte delle fortificazioni di confine fra Rimini e Pesaro, oggi è abitato da una trentina di persone. Frazione della celebre Gradara, a due passi sia dal parco naturale del Monte San Bartolo proteso sul mare, che dalla Tavullia di Valentino Rossi, offre un panorama meraviglioso fra il profumo dell’alloro e le pietre di un castello con oltre 1.200 anni di storia.

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Granarola del XVII secolo

Gravemente danneggiato dalla guerra, il castello nel 2008 è stato acquistato e recuperato da Marco Morosini, creatore del marchio Brandina. Ne ha ricavato il “primo Long Stay House by BRANDINA” con “9 esclusivi rifugi dalla quotidianità”, fra cui la possibilità di dormire nel bosco.

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Se poi si cerca un posto che davvero si trova in un’altra dimensione e non da oggi, bisogna raggiungere Cerreto, una piccola frazione di Saludecio. Lo chiamano anche il “paese degli sciocchi”, e tanti sono i racconti popolari che irridono questo paesino da sempre isolato, sebbene il mare disti in linea d’aria meno di 20 km.  Si narra per esempio che i Cerretani, per riacquistare l’intelligenza che non riuscivano più a trovare, decisero di recarsi al mercato di Rimini. A metà strada, dalle parti di Morciano, sentendosi però stanchi, fecero ritorno alle loro case ripromettendosi di fare all’indomani l’altra metà della strada. Oppure, che in guerra con Saludecio, si fabbricarono un cannone di legno che esplodendo ne fece strage; ma loro esultarono, calcolando che se la cannonata aveva provocato lì tante vittime, chissà quante ce n’erano state fra i nemici.

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Come la cesenate Sorrivoli e i suoi “matti“, Cerreto era dunque uno di quei “paesi dei folli” dove l’isolamento aveva prodotto un dialetto particolare e mantenuto le usanze più ancestrali e quindi “strane” agli occhi dei vicini più “civilizzati”. Non a caso Cerreto andava famosa anche per il suo carnevale, la più pagane delle feste.

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Cerreto di Saludecio

Cerreto ha mantenuto intatta la sua modestissima struttura urbanistica medievale. Nella sua vallata isolata da tutto e da tutti, immersa nel silenzio fra le colline dorate di stoppie e le profonde forre boscose.

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La porta del castello di Cerreto

Valle Sant’Anastasio si trova invece dietro San Marino, anche se in territorio italiano. Qui, nel medioevo, vi erano un castello ed un’abbazia benedettina che godeva di notevoli privilegi, essendo sotto il diretto controllo della Santa Sede. Le reliquie di S.Anastasio, martire persiano (prima del battesimo si chiamava Magundat) morto nel 628, acquistarono grande rinomanza quando furono traslate a Roma dall’imperatore Eraclio, intorno al 640. Il suo capo era venerato nel monastero detto delle “Acquae Salviae” intitolato poi ai santi Vincenzo ed Anastasio alle Tre Fontane: monastero potente e ricchissimo di possedimenti nella Tuscia e oltre, dove deteneva interi feudi e castelli.
Ancora oggi il Santo è molto venerato con la diffusione di medaglie di vari formati da indossare a cui si dà molta importanza per preservare dai mali.

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La Valle che dall’abbazia prende il nome è profondissima e ricca di sorgenti considerate appunto miracolose, sfruttate anche da un piccolo impianto termale e imbottigliate come “Acqua di San Marino”. Purtroppo i ruderi dell’Abbazia di Sant’Anatasio , che per qualche tempo fu sede dei vescovi del Montefeltro e custode delle reliquie del monaco benedettino S.Alberigo, sono in stato di totale abbandono e invase da arbusti, fichi e nespoli.

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Prendendo dalla costa tutt’altra direzione e risalendo la valle dell’Uso, si arriva infine a Montetiffi, il paese delle teglie di terracotta (in dialetto i “test”)  su cui cuocere la vera piada, ma anche le uova.

Strano nome, quello di Monte Tiffi: se fosse davvero di origine celtica come qualcuno pensa, significherebbe “monte dei ladri”. Sta di fatto che dal IX secolo vi sorge l’abbazia di S.Leonardo, uno dei monumenti romanici più antichi della Romagna. Ai piedi della ripidissima rupe, il fiume Uso scorre fra pittoreschi calanchi e formazioni rocciose cui l’erosione ha dato forme singolari, fra “piscine” naturali e cascatelle. Intorno, un ponte medievale e mulini ormai abbandonati.

Montetiffi

Montetiffi

Ma tornando ai “testi”, così il poeta Giovanni Pascoli ricorda questo mestiere millenario che ha la forza della roccia:

“…Fosse andato pur là dove è maestra gente

in far teglie sotto cui bel bello

scoppietti il pungitopo e la ginestra.

A Montetiffi …!”

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Le teglie di Montetiffi

Un nome simile per un altro luogo del silenzio: Pratiffi. Siamo nell’alta valle del Marecchia, ma l’enorme sasso su cui sorge la Rocca non si scorge quasi mai, nascosto dalle alture circostanti.

Dell’immancabile castello restano parte della cinta muraria, del maschio e delle cortine, l’ingresso esterno che conduceva alla Rocca lungo un sentiero scavato nel sasso.

Rocca Pratiffi

Rocca Pratiffi

Esistono ancora la cisterna e ruderi di un bastione. La Rocca era stata ceduta nel ’200 dalla Chiesa a Griffolino de’ Pratiffi. Fu poi di Uguccione della Faggiola, e quindi, dopo varie traversie, pervenne nel 1490 ai Fregoso di Genova, padroni di S.Agata. Questo era uno dei luoghi dove, più recentemente, si imboscava, con la sua banda, Tommaso Rinaldini, “Mason d’la Blona”, settecentesco brigante pesarese, nel corso delle sue scorrerie tra Romagna e Marche.

A guardia della confluenza del Senatello nel Marecchia, in una spettacolare posizione panoramica, c’è Cicognaia. Per le complicazioni politico-amministrative che ancora risentono degli antichi domini, qui saremmo in Toscana; ma si tratta di un’enclave, un’isola della provincia di Arezzo circondata da tutti i lati dalla Romagna (e prima del 2006 dalle Marche). La torre cilindrica fa pensare a un’origine bizantina, mentre la chiesa dedicata al riminese S. Arduino (morto nel 1009) esisteva probabilmente fin dal VII secolo sui resti di un preesistente edificio pagano. L’abside dalle linee preromaniche è ben conservata, così come la cripta sostenuta da colonne con capitelli d’influenza ravennate, oltre a frammenti di pavimentazione romanica, affreschi del XIV secolo e un tabernacolo medievale in pietra.

Cicognaia

Cicognaia

I felini e i loro amanti non c’entrano: Gattara a quanto pare deriva dal celtico “Gat”, bosco, e il suo castello del 1145, rimase di proprietà dei Principi di Carpegna fino al 1817, anche se più volte passò di mano fra Malatesta, Montefeltro e Faggiolani.

La sua storia è molto antica: il luogo era abitato dalla seconda età del Ferro e numerosi sono i reperti ritrovati, accanto a quelli d’età romana. Il borgo è intatto e ben restaurato, inerpicato a metà di una ripida parete rocciosa con di fronte un panorama unico sui Sassi del Simone e Simoncello.

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La chiesa di S. Maria di Gattara

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Bascio domina l’antica via per Roma con la sua torre millenaria, quanto rimane dell’antico e maestoso castello che dominava la sottostante valle del Senatello: “Si va a Roma – recitava un proverbio – si vuol Dio e quei di Bascio”. Ai piedi della torre sono stesi sette tappeti di ceramica che compongono il “giardino pietrificato” appartenente al museo diffuso di Tonino Guerra; i sette tappeti sono dedicati ad altrettanti personaggi del passato che in questo luogo sono vissuti o transitati. Opere del ceramista Giovanni Urbinati, hanno titoli fantasiosi che sono stati suggeriti al maestro da episodi o da gesta del personaggio celebrato.

Il tappeto dell’anatra dal collo azzurro. Dedicato alla contessa Fanina dei Borboni di Francia andata sposa ad un capitano dei Carpegna. Impazzì per la solitudine ed affidò al vento le sue richieste di aiuto.

Il tappeto delle onde quiete. Per ricordare Giotto che “dal Montefeltro vide lontanissimi i primi bagliori azzurri dell’Adriatico“.

Il tappeto delle piramidi sognate. Dedicato a Bonconte da Montefeltro; “Perché le trentacinque piramidi siano tombe del suo corpo valoroso scomparso nel fiume della battaglia”.

Il tappeto delle Cattedrali abbandonate. Dedicato a padre Matteo da Bascio, fondatore dell’ordine dei Cappuccini che per “tutto il mondo andava esclamando e riprendendo ogni sorta di persona, gridando “all’inferno, all’inferno, peccatori””.

Il tappeto delle conchiglie montanare. In ricordo del grande capitano di ventura Uguccione della Faggiola “che da questi colli vedeva i confini dell’Italia e tanto fu ammirato da Dante che gli dedicò l’inferno”.

Il tappeto dei pensieri chiari. Per ricordare Dante “che vide questa torre fuggendo da Firenze per raggiungere il rumore del mare di Ravenna”.

Il tappeto dei pensieri oscuri. Per ricordare il poeta Ezra Pound, vissuto per un breve periodo a Pennabilli, che disse del Marecchia “dove la melma è piena di sassi”.

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