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Evelyn Prioli, nascere a Rimini con il jazz nell’anima

«Il jazz non lo puoi spiegare a qualcuno senza perderne l’esperienza…non è un teorema intellettuale, è feeling». Queste parole del grande pianista Bill Evans spiegano tutto di questa musica. Il jazz non si canta, il jazz si vive. Questa musica, forse più di altre, permette di esprimere la propria libertà interiore, il proprio modo di essere.

Fra chi ha scelto di vivere il jazz c’è la riminese Manuela “Evelyn” Prioli , 33 anni, solista dalla voce black e dal timbro raffinato, che riesce a reinventare in chiave moderna le più belle canzoni della tradizione jazzistica e della soul music.

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Evelyn, quando ha incontrato la musica per la prima volta?

«Il mio primo ricordo musicale riguarda il mio caro nonno Vittorio, diplomato in clarinetto al Lettimi di Rimini. Fisarmonicista e batterista, che mi ha fatto innamorare dei grandi classici della tradizione italiana, trasmettendomi il suo grande amore per la musica. Dedico a lui la mia incessante passione e ricerca musicale. I miei primi ricordi erano le sue musiche alla fisarmonica, che suonava sempre e di cui conservo ancora gelosamente gli spartiti. La prima canzone che ho adorato e mi ha emozionato è stata ”Ciao ciao bambina” di Modugno, ascoltata dalle cassette di mio nonno. Mi commuove sempre il ricordo, perché quella melodia unite al testo cosi malinconico, mi hanno fatto tremare il cuore di emozione ed è quello che ancora ricerco nella musica che ascolto e interpreto».

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Cosa prova quando canta il jazz?

«Provo un senso di libertà ed espressione di me stessa, perché attraverso questa musica, e la reintrerpretazione degli standard jazz che hanno fatto la storia della musica, sento la possibilità di poter raccontare la mia storia, il mio sentire. Il jazz è un linguaggio che permette una libertà interpretativa, di scelta timbrica e di timing. Le armonie e le melodie jazz sono talmente coinvolgenti che a volte mi portano in angoli più profondi del mio sentire. Mentre canto certi standard come “Body and Soul”, “My foolish heart”,”You don’t know what love is you”, “Must Believe in Spring” e tanti altri, entro in contatto con una parte di me che non sempre percepisco. Inoltre mi emoziona reinterpretare grandi classici cantanti come Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Dinah Washington, Nancy Wilson, Sarah Vaugan, Carmen Mc Rae e questo mi permette di avvicinarmi mentalmente e musicalmente al loro mondo. Una cosa che adoro, e che faccio spesso quando mi avvicino per la prima volta ad un nuovo standard jazz, è di ascoltare il brano strumentale prima di cantarlo, poiché una volta che ne affronto il testo, inserendolo sulla melodia, sono curiosa di sentire la mia prima interpretazione. Successivamente, sentendo il brano cantato dalle grandi voci del jazz, mi emoziona e mi diverte trovare le assonanze di stile e di feeling sull’interpretazione del brano e in qualche modo mi permette di capire ancora meglio il loro approccio, le scelte timbriche e stilistiche sul brano».

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È stato il jazz ha scegliere lei o il contrario?

«Il mio amore per il jazz nasce dall’ascolto di due grandi Cd che mi sono stati regalati. Uno di Charlie Parker, massimo esponente del Bebop e uno di Bill Evans assieme a Cannonball Adderley, mio musicista preferito. E’ stato amore a primo ascolto. Mi sono appassionata cosi tanto a quel nuovo linguaggio che in tutti i modi cercavo di seguire ogni fraseggio. Sento di essere stata scelta perché forse ho un’inclinazione particolare verso l’ascolto di questo genere, ma al tempo stesso lo scelgo, nel senso che cerco sempre di avere un atteggiamento propositivo verso il linguaggio del jazz e tutte le sue contaminazioni, provando a lasciarmi guidare dai solisti nel loro mondo, senza darne un giudizio superficiale ma entrando in contatto con il suo modo di dialogare. Inizialmente, ero restia ad ascoltare solisti troppo tecnici e virtuosi, mentre adesso mi emoziona riuscirli a ‘sentire’. Quello per me è il momento più emozionante. Ci terrei a ringraziare i direttori artistici e i locali della mia città che propongono rassegne jazz, perché è grazie a loro che questo linguaggio riesce ad espandersi e a toccare sempre più persone e, soprattutto, sono molto contenta, perché vedo che grazie a queste rassegne, sempre più numerose, l’ascolto del pubblico è migliorato e cè sempre più sensibilità e rispetto per gli artisti che scelgono di eseguire il jazz».

Quale sono le sue cantanti preferite? Ne esiste una che ama più di altre?

«I miei riferimenti jazz al femminile sono Dinah Washington, Nancy Wilson, Ella Fitzgerald, Sheila Jordan, Billie Holiday, Shirley Horn e le più recenti come Amy Winehouse, Esperanza Spalding, Cyrille Aimee, Cecile McLorin Salvant, Diana Krall, Sarah McKenzie. Per quanto mi riguarda, mi sento molto vicina a Sheila Jordan, originaria di Detroit, che ho conosciuto a Firenze ad un Master. Quella esperienza è stata davvero emozionante, perché lei è il mio mito e poter respirare quelle atmosfere jazzistiche insieme a lei, è stato fantastico».

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Canta in qualche band?

«Al momento ho varie formazioni di cui sono solista: dal quartetto al trio al duo con cui mi esibisco nei vari club e ho il piacere di partecipare alle varie rassegne jazz della zona».

Dei talent cosa ne pensa? Ha mai pensato di partecipare?

«Penso che talent e concorsi in genere debbano essere per il cantante un’esperienza e una sana idea di confronto. Se diventa una buona opportunità per farsi conoscere ben venga, ma non conoscendone i meccanismi mi spaventa un po’ quello che può accadere sulla visione musicale dell’artista e sul suo percorso successivo che, a volte, viene dirottato e plasmato verso il mercato musicale commerciale per il grande pubblico, piuttosto che sulla propria ricerca personale. Si possono sfruttare anche altri canali per farsi conoscere, a volte più diretti come Youtube, Spotify, social che permettono comunque di entrare in contatto con un pubblico sempre più vasto.
Il cantante deve diventare anche musicista. Il mio obiettivo è quello di essere in grado di gestire e guidare al meglio la mia band, scrivendo arrangiamenti personali e potendo collaborare con musicisti diversi grazie alle competenze acquisite. Al momento non penso di partecipare, perché sono focalizzata sullo studio in Conservatorio e nel miglioramento della tecnica dello Scat».

Cos’é lo Scat?

«Lo Scat è una forma di canto, quasi sempre improvvisato, appartenente alla cultura musicale del jazz. Consiste nell’imitazione di strumenti musicali con la voce, tramite la riproduzione di fraseggi simili a quelli strumentali che non prevede l’uso di parole compiute ma di sillabe e fonemi privi di senso e dal suono accattivante. Il cantante utilizza questi suoni in chiave ritmica oltre che melodica. Questa tecnica è un po’ distante dal mercato musicale attuale, ma comunque affascinate e al tempo stesso creativa per formare il mio pensiero musicale. Creare nuove linee melodiche e ritmiche è come creare una canzone nuova ogni volta ed è un’emozione indescrivibile che un giorno forse mi permetterà di comporre anche qualcosa di personale».

Quale obiettivi vorrebbe raggiungere con la sua musica?

«Per adesso sono un interprete che spera di arrivare al suo pubblico con la sua verità e passione, divertendomi e commuovendomi grazie alle grandi songs del jazz e non solo. L’obiettivo è quello di poter avvicinare e magari emozionare, attraverso una mia interpretazione, chi avrà modo di ascoltarmi nelle mie esibizioni. Devo dire grazie ai miei compagni, i miei musicisti, con cui ho la fortuna di collaborare e intraprendere questo grande viaggio musicale. Spero un giorno di poter raggiungere la stessa bellezza delle jazz song nei miei brani che, al momento, sono ancora chiusi nel famoso cassetto dei sogni».

A proposito di sogni. Quanti sogni ha dentro il cassetto?

«Ah, il famoso cassetto dei sogni, sono molto affezionata a questo immaginario luogo dei desideri. Ogni anno mi prendo un attimo per riordinarlo e ritrovare le mie fantasie. Dentro ci trovo sogni piccoli ma, ogni volta, riaprendolo mi accorgo di averne raggiunto qualcuno. Al momento sto inseguendo il sogno di apprendere sempre meglio un linguaggio musicale che mi permetta di dialogare e di creare un interplay personale con i miei musicisti. Un giorno, mi piacerebbe poter condividere un’incisione con loro, ma nel frattempo mi godo il tragitto e, soprattutto, il panorama».

Nicola Luccarelli

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