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Evade per andare a lavorare in nero, ma dove sono finiti i giovani fannulloni di una volta?

«Chi li capisce questi giovani?» La tentazione di abbandonarsi a considerazioni da vecchi rimbambiti è irresistibile quando si leggono storie come quella del 21enne riminese arrestato perché usciva dagli arresti domiciliari, che scontava per una rapina, per andare a lavorare in nero come cameriere.

E qui noi vegliardi non ci raccapezziamo più: quando ai ragazzi diciamo di alzarsi dal divano e uscire a cercarsi un lavoro (meglio se umile perché fortifica il carattere, come sostiene il ministro dell’Istruzione Valditara), ci mandano a quel paese. Quando è la legge a obbligarli a stare sul divano senza far nulla e a non uscire di casa, allora scappano per andare a servire ai tavoli di un ristorante. Che sia questa la strategia, più efficace dell’abolizione del reddito di cittadinanza, per schiodare i giovani fannulloni dal sofà casalingo e incitarli a tuffarsi nel mercato del lavoro (anche nero, via, il motto del governo Meloni è “non rompete le scatole a chi vuole fare”)? Subito dopo la maturità 2023, si potrebbe decretare la condanna agli arresti domiciliari per tutti i diplomati. Avremmo un’evasione di massa di diciannovenni verso ristoranti, bar e pizzerie e risolveremmo così il problema della carenza di personale negli alberghi per la prossima stagione estiva.

D’altro lato, però, anche i giovani potrebbero domandarsi cosa vogliamo noi adulti da loro. Il 21enne in questione era stato condannato per aver derubato un altro ragazzo di denaro e cellulare, insieme ad alcuni coetanei. La pena, evidentemente, stava sortendo una volta tanto i sospirati effetti rieducativi, visto che il giovane teppista aveva capito che i soldi e i cellulari uno non deve per forza prelevarli a forza dalle tasche altrui, se li può anche procurare legalmente col frutto del proprio lavoro. E a questo punto bisognerebbe domandarsi come mai è arrivato a questa fondamentale scoperta solo a 21 anni grazie a una condanna, quando avrebbero dovuto fargliela almeno balenare sia la scuola che la famiglia, molto tempo prima.

A quanto pare, una volta conosciuta l’ebbrezza del lavoro umile ma onesto (e retribuito), il giovanotto non poteva più farne a meno. Già quest’estate, previo permesso del giudice, era andato a lavorare come cameriere in un ristorante, che però a fine settembre non gli aveva rinnovato il contratto. Pur di scongiurare un ozioso autunno da divanista, il nostro eroe non ha esitato a infrangere nuovamente la legge, stavolta non per delinquere, ma per l’esatto opposto, e cioè per essere un membro produttivo della società. Più riabilitazione di così! Invece ora il ragazzo non solo si ritrova di nuovo inchiodato ai domiciliari, ma dovrà affrontare un nuovo processo, stavolta per il reato di evasione, e un domani si ritroverà, ancora giovanissimo, con una fedina penale da delinquente incallito che non lo aiuterà certo quando dovrà trovare un impiego.

Quale messaggio lancia ai giovani uno Stato che, stando alla Costituzione, sarebbe fondato sul lavoro? Che alla fin fine è meglio starsene chiusi in casa, senza cedere alla voglia di andare a lavorare. E che il lavoro è un premio, un privilegio, un regalo per chi si comporta bene, non un diritto né tantomeno un dovere per tutti. Sarà difficile capire i giovani, non sarà facile capire gli adulti, mapiù incomprensibili di tutti sembra il combinato disposto delle leggi che abbiamo architettato.

Lia Celi

(in apertura: foto di Foto di Antoni Shkraba)

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