Il circo mediatico della politica ci riempie gli occhi di felpe colorate, di camicie svolazzanti, di politici in mutande, di alcove svelate, ecc. ecc. Siamo di fronte a un processo di “democratizzazione” della politica o a un subdolo inganno?
L’abbigliamento degli esponenti politici di oggi porta a chiedersi come mai la mia generazione, quando accedeva a cariche istituzionali, era solita indossare giacca e cravatta anche laddove i regolamenti non lo imponevano? Eppure venivamo da un grande movimento di giovani e di popolo, come furono il sessantotto e gli anni settanta. Eppure contestavamo il potere così come si era costituito, rivendicavamo spazi di autonomia e di libertà, migliori condizioni economiche e speranza per il futuro.
Però indossavamo giacca e cravatta.
A volte quest’apparente contraddizione produce in me il sospetto della subalternità; i casi sono due: a) eravamo contestatori ma subalterni agli stili di vita della società borghese; b) eravamo consapevoli che l’istituzione meritava rispetto in quanto “valore” superiore a noi e al nostro movimento.
Dunque domina nei leaders politici di oggi una disinvoltura sconosciuta fino a pochi anni fa. Perché? Quale messaggio si vuole trasmettere?
Mi è tornato in mente un articolo pubblicato sull’Unità, forse nel ’98 o nel ’99, dal concittadino Paolo Fabbri che dirigeva in quegli anni l’Istituto Italiano di Cultura a Parigi. Delineando il profilo del Primo Ministro francese Lionel Jospin, concludeva: ”Jospin non farebbe mai il karaoke!”.
Fabbri si riferiva non tanto al ben noto carattere scontroso di Jospin, quanto piuttosto al rispetto del ruolo e dell’istituzione che in quel momento rappresentava e, in via indiretta, alla moda che si stava affacciando fra i politici di “abbassarsi”, di mettersi al livello del suolo, di esibire gli stili di vita della gente per dimostrare di essere come loro, di “io dico ciò che tu pensi”. Erano i primi deboli segnali dell’inganno del populismo? Esibizione di un’eguaglianza formale, misero surrogato di un’eguaglianza sostanziale?
Garibaldi, quando entrò per la prima volta nel Parlamento piemontese, nel 1860, si presentò con la camicia rossa e il poncio da guerrigliero sudamericano. Lo fece per provocare. Egli, repubblicano e socialista, intendeva ricordare ai liberali incravattati che quel Parlamento era frutto di un percorso di lotta e che fuori c’era un popolo in attesa di riscatto.
Non mi pare che questo sia il messaggio dei politici di oggi. Essi piuttosto intendono dire: io sono come te, dammi il tuo consenso, poi ci penso io!
Si tratta di quello che Gramsci, parlando di Mussolini, definiva “individualismo giacobino”.
Siamo sicuri che chi ha responsabilità politiche debba “essere come te e pensare come te”? Oppure la politica ha un livello di complessità superiore alla vita quotidiana semplicemente perché deve trovare l’equilibrio fra spinte contrastanti e garantire sviluppo?
Non so dire quali siano oggi l’abito e il linguaggio del corpo più consoni alle istituzioni. Non so se “giacca e cravatta” siano ancora l’abito opportuno, so però che non lo sono le felpe di Salvini o le mutande di Calenda.
Giuseppe Chicchi