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Darsena di Rimini, quando lo Stato gioca alle tre carte

La società di gestione della darsena di Rimini, Marina Blu spa, ha ricevuto, venerdì scorso, una cartella esattoriale per 1,1 milioni e il blocco dei conti correnti che non gli consente più l’operatività.

Non si tratta di un normale contenzioso tra fisco e un imprenditore. Purtroppo questa vicenda è, per alcuni aspetti, uno spaccato dell’Italia. Un insieme di burocrazia cieca e autolesionista, incredibile cambio delle regole in corso d’opera e groviglio di sentenze tra loro in contraddizione, con organi dello Stato che si ignorano a vicenda.

A farne le spese un intero settore, come quello della nautica da diporto che in un Paese turistico dovrebbe essere tratto coi guanti, specie quando c’è gente che ci ha messo fior di soldi. E che ora invece rischia  di fallire. Basta riassumere alcuni passaggi per comprendere la sostanza di una vicenda surreale.

La società Marina Blu S.p.A. è titolare della concessione-contratto per la realizzazione e gestione del porto turistico di Rimini e delle strutture destinate alla nautica, con durata di 50 anni a datare dal 1999. L’atto concessorio prevede l’obbligo di costruire e mantenere per tutta la durata la darsena e tutto quanto connesso e di pagare un canone annuo stabilito nel contratto.

Nel 2007 una norma inserita in finanziaria aumenta i canoni pattuiti, per le marine, di oltre il 380%. Evidente che un canone così alto faccia saltare i piani finanziari per la realizzazione delle darsene di mezza Italia.

Inizia un lungo contenzioso nei tribunali che ha coinvolto tribunali civili, amministrativi fino alla Corte Costituzionale.

A 10 anni dall’inizio della vicenda la Corte Costituzionale ha stabilito che l’aumento dei canoni è legittimo, ma va applicato in modo diverso.

Evidente che avvallare un atto che permette allo Stato di modificare un contratto in modo unilaterale significa scoraggiare chiunque a mettere di soldi in un affare con il pubblico.

Non esiste al mondo che un contratto tra privati si possa modificare in questo modo. Come se io affittassi un appartamento per un certo canone e un bel giorno mi presentassi all’inquilino pretendendo il quadruplo della cifra pattuita, arretrati compresi.

Quindi la Corte Costituzionale indica anche una via di uscita. I nuovi canoni si applicano solo alle marine già di proprietà dello Stato e non a quelle in concessione come la darsena di Rimini, (solo dopo 50 anni, 2049, la darsena di Rimini diventerà di proprietà dello Stato).

Ma giunge il secondo colpo di scena. Il Consiglio di Stato a cui ha fatto ricorso il Marina di Rimini, sentenzia, dopo la pronuncia della Corte Costituzionale, che i canoni aumentati del 380% vanno tutti bene.

In sostanza il Consiglio di Stato non tiene minimamente conto del dispositivo della Corte Costituzionale, che dovrebbe essere l’organismo supremo di giudizio.

Nel frattempo in giro per l’Italia vi sono Tar e tribunali che hanno dato ragione alle marine, aumentando la confusione e mandando il buon senso a farsi benedire.

Ultimo aspetto. In dieci anni la politica non è stata in grado di porre rimedio a questa norma sbagliata e riportare tutto ai contratti stipulati. Tanti i tentativi fatti. Tutte le associazioni nazionali del settore hanno coinvolto i Governi di turno, ma senza cavarne nulla.

E naturalmente nulla ne ha cavato lo Stato finora da questo intreccio kafkiano: nessuno in questo decennio ha mai pagato quei canoni maggiorati, essendo ancora tutto nelle mani di questo o quel giudice.

Le politiche di sviluppo e di investimenti il più delle volte all’erario non costerebbero nulla: basterebbe dare certezze a chi è pronto a investire. 

Esattamente il contrario di quanto sta succedendo per la Marina di Rimini e le altre darsene italiane nelle stesse condizioni.

Stefano Cicchetti

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