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Crisi delle banche, la storia non ci ha insegnato niente

Lo stupore di fronte alla crisi di Monte dei Paschi, e più in generale di gran parte del sistema bancario nazionale, è quello che accompagna il bambino che per la prima volta vede oggetti che appaiono straordinari rapportati alla sua piccola esperienza. Ma per gli esseri umani maturi più che lo stupore, il sentimento per leggere le odierne disavventure bancarie dovrebbe essere quello della rabbia per non aver evitato una lezione che la Storia ci aveva già impartito e per la quale ci aveva dato pure gli strumenti per evitarla nuovamente.

L’uomo maturo dovrebbe andare con il pensiero, infatti, al periodo dopo il 1929. La Grande Depressione travolse tutto il sistema bancario internazionale, compreso quello di casa nostra. Un sistema bancario che vedeva la presenza delle cosiddette “Banche Miste”, cioè Istituti di Credito che operavano indistintamente sia nel breve che nel lungo periodo. Potevano, cioè, raccogliere depositi da utilizzare sia per attività di breve durata sia per finanziare il credito industriale, con scadenze che superavano anche i dieci anni.

La crisi del 1929, con il suo intreccio perverso tra Banche e Imprese, fece sì che il sistema bancario si trovasse in braghe di tela. Lo Stato e la Banca d’Italia furono costrette a intervenire per salvare le maggiori banche miste, gonfie di prestiti e partecipazioni azionarie di imprese ormai decotte.

Dapprima venne creato l’Istituto Mobiliare Italiano (IMI) con lo scopo di assicurare i finanziamenti di medio lungo periodo. Successivamente venne creato l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), con il compito di acquisire, dalle banche, le partecipazioni che possedevano nelle aziende in crisi. Nel 1936, a completamento dell’intervento dello Stato nell’economia, venne emanato il R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, che introduceva la riforma del sistema bancario. Il suo nucleo centrale prevedeva la fine della “Banca mista” e l’introduzione, invece, della separazione fra credito a breve e a lungo termine. Una delle cause principali della crisi del sistema bancario fu eliminata. Il decreto del 1936 rimase in vigore, garantendo una certa stabilità al sistema bancario italiano, fino al 1993 quando il Governo di Giuliano Amato (proprio lui, il dottor Sottile, il candidato buono per ogni carica istituzionale di rilievo) approvò il Testo Unico Bancario che, guarda caso, poneva fine alla “banca specializzata”. La si riteneva non adatta ai tempi moderni. Ritornò in auge la “banca mista” che tanti danni aveva fatto in passato. Nel 1993, quindi, si riprende il giro di giostra interrotto sessant’anni prima.

Essendo il Testo Unico ancora vigente, tutte le banche possono, senza alcuna distinzione, raccogliere risparmio senza limiti di durata, detenere partecipazioni industriali, compiere operazioni finanziarie, emettere obbligazioni da vendere pure alla clientela più sprovveduta. E oggi, come allora, a seguito di una crisi globale gravissima, le banche sono puntualmente in difficoltà. E oggi, come allora, è lo Stato che deve intervenire con denari propri, ergo di tutti noi, per salvare un sistema che di moderno ha ben poco, ma di clientelare tantissimo.

Certamente, la colpa dell’attuale situazione non può essere imputata unicamente a un disposto normativo, seppur efficacie. Altri fattori vanno indagati, compreso il rapporto incestuoso fra proprietà della banca e imprese clienti, oppure fra politica e istituti di credito (vedi alla voce Fondazioni bancarie, ma ne parleremo più avanti). Nuovamente, però, la Storia ci impartisce una lezione: non esiste un’economia che si autoregolamenta in maniera efficiente. Occorre la presenza di uno Stato che detti regole, che controlli e che, in parte, diriga il mercato. Questo, forse, è una delle verità più dure che il mondo moderno squaderna davanti agli occhi di chi ritiene l’intervento statale un vecchio arnese del Novecento.

Giovanni Benaglia

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