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Come possiamo poesistere in questa vita

Il curatore della nostra sezione di poesia, Paolo Vachino, di mestiere avvocato, che da quasi due mesi edita un testo al giorno di poeti italiani, stranieri, dialettali ci ha consegnato questa breve riflessione su che cosa sia per lui la poesia oggi nel mondo moderno.

Tutte le mattine, centinaia (non migliaia come per altri articoli) di nostri lettori cliccano sulla poesia del giorno. A conferma che la poesia non è per tutti, ma per tanti sì. Perché se una piccola rubrica come questa riesce ad interessare giornalmente centinaia di persone, con punte sino a quasi duemila per i testi di Lello Baldini o di Tonino Guerra, allora, come dice Vachino, “la poesia raggiunge”. Chi? Noi lettori di poesie.

Così possiamo POESISTERE

A proposito di neologismi, poesistere è affrontare un’esistenza intrisa di poesia.
Per me oggi fare poesia significa scendere dai piedistalli delle illuminazioni museali e guardare l’umanità da un’altra prospettiva: dal basso verso l’alto, cercando tra le pieghe della terra le piaghe e le ustioni di questa umanità in preda a una combustione atmosferica, che non solo ozonobuchizza i cieli, e squacqueronizza icebergs artico-antartici, ma soprattutto i corpi e le anime, in preda a liquefazioni monetarie e vetero-schiavistiche.

Fare poesia è distendersi nella parte escrementale del mondo, nuotare tra pus e infezioni, inzuppando in quell’impasto tutte le parole a disposizione, che devono grondare non tanto di dolore, ma del suo superamento; occorre abbandonare a poco a poco le lamentazioni autistiche, la garrulità di certe tristezze passeggere, e provare a parlare di ecatombe delle emozioni, di catastrofi d’amore; le parole devono esortare a guardare l’altra riva, vedere nei rivali un orizzonte di salvezza; devono semplicemente raggiungere la prossimità di un ascolto, ma di un ascolto desiderato e non coatto, come nei rituali della comunicazione.

La poesia non comunica. La poesia raggiunge. Entra. Scava. Infetta. Produce anticorpi e alla fine accompagna alla guarigione. La poesia non riguarda il destino di chi la scrive, ma di chi la incontra. Il poeta non ha alcun diritto di cittadinanza terrena. Ha solo diritto di parola. Per questo non necessita di anagrafie spaziotemporali, di biografie sommarie. Il poeta bussa con le parole alle porte degli uomini, e chiede di dare loro – alle parole – ospitalità.

Tutto il resto può rimanere fuori. Deve rimanere fuori. Fare poesia significa mettersi in ascolto di tutti i respiri che si incontrano, ascoltare mantici polmonari in cui scorre tanta vita, come avvertire piccoli inceppi o sibili tra gli alveoli; significa trasformarsi in aria ed entrare in circolo con i sangui, e pompare dentro tutta la vita che c’è, milioni di globuli rossi di parole.

I poeti non si servono delle parole come dei boomerang di senso, lanciati nell’aria per attendere il loro rientro, consistente alla fine nella bravura dell’acciuffo per mano. Il poeta non rilegge, non si interessa delle parole che scrive. Sono doni. Non prestiti. Ma soprattutto le parole non devono avere alcun marchio di fabbrica. Sono di tutti le parole dei poeti, perché nascono pensando a tutti. Non esiste diritto d’autore, ma di fruitore.

Il poeta scrive come respira; rima come mastica; cerca parole nel pentagramma dell’amore per la vita. Non si scrive per calmare il proprio dolore. Si scrive semmai per procurare all’altro lo stesso dolore. Ma non per sadismo, ma per una guarente omeopatia degli affetti e dei sentimenti, che sarebbero stati il sale dell’umanità se non esistessero i sentimentali e i sentimentalismi. La poesia è essere forti di fronte alle debolezze del mondo, e non il contrario, indeboliti dalle sopraffazioni del reale. I poeti sono la parte più aspra, feroce, dura e petrosa della dolcezza dell’essere. Vivere la cattività della parola significa amare ancora di più la libertà che la vita ci mette a disposizione.

Insomma, poesistere: affrontare un’esistenza intrisa di poesia.

Paolo Vachino

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