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Conti sotto controllo, lo sarà anche la politica?

Non sono certo un economista, ma siccome su certi argomenti dobbiamo confrontarci tutti e tutti i giorni, anch’io ho provato a capirci qualcosa, valutando naturalmente le considerazioni degli esperti anche quando contengono argomenti difficili e visioni di parte.

Parliamo dunque del debito pubblico italiano. E partiamo dal recente documento del MEF (Ministero dell’Economia e Finanze) dal titolo “Revisione della spesa: obiettivi, attività e risultati 2014-2016”. Un documento finalmente comprensibile anche per i non addetti ai lavori.
Ma partiamo dalle cifre illustrate.

La spesa pubblica in Italia è di circa 830 miliardi di euro all’anno, di cui 337 miliardi per spesa sociale (pensioni, sostanzialmente), 66.5 per gli interessi per il debito pubblico, 57 miliardi di investimenti, 40 di spese non aggredibili, e 328 di spesa corrente aggredibile.

Di questi 328 miliardi di spesa corrente aggredibile, 164 sono dovuti per il personale, 137 per l’acquisto di beni e servizi e 28 per spese di varia natura.

Ne deriva quindi che il 90% della spesa aggredibile (cioè passibile di modifiche e di diminuzioni) riguarda il personale e l’acquisto di beni e servizi.

Dove vengono spesi questi 328 miliardi? 108,7 per la sanità, 53.3 a Comuni e Province, 53.7 all’istruzione, 21.2 alla sicurezza, 14.4 alla difesa e 73 a varie voci.

Quella che ci appare come un montagna di soldi, in realtà fa attualmente del nostro il nostro Paese uno dei più virtuosi in Europa, avendo aumentato la spesa appena dello 0.2% dal 2013 al 2016 , contro una media europea dell 6.6% .

C’è però la spesa non comprimibile, qui 337 miliardi che servono soprattutto a pagare le pensioni. E questa è la più alta in Europa, equivalendo al 16.5% del PIL (del 2016) contro una media europea del 13.5%. 

Inoltre, avendo uno dei tre debiti pubblici più alti del mondo (in compagnia di Usa e Giappone)  dobbiamo pagare per gli interessi il 4% del PIL, la percentuale più alta in assoluto in Europa contro una media del 2.2 %.

Se si pensa che in tre anni di lavoro ( 2014-2017) del Commissario si è arrivati alla diminuzione della spesa pubblica di 29.9 miliardi, si comprende l’entità dello sforzo compiuto.

Ma come come si è giunti a questo risultato?

Il documento del MEF a questo riguardo risulta essere molto chiaro: efficientamento della spesa corrente, aggregazioni e accorpamenti per raggiungere maggiore massa critica, controllo mirato dei dati attraverso le banche dati (Siope,Nsis,Anac), informatizzazione e digitalizzazione dei pubblici servizi.

Queste poi le azioni principali:

acquisti centralizzati tramite la Consip, con la creazione di tavoli di soggetti aggregatori. E’ noto infatti che nella centralizzazione degli acquisti si corre il rischio di staccare i problemi dal lavoro quotidiano, correndo il rischio di sperperare sempre risorse per acquisto di materiali inadeguati. I Tavoli dei soggetti aggregatori devono servire a creare questa relazione fra elaboratori e lavoro quotidiano.

  • diminuzione del numero del personale dello Stato al netto di 84.000 unità (- 6.8% nei Ministeri) , con un – 3.8% nella scuola nonostante la immissione in ruolo di circa 100.000 precari.
  • riduzione dell’organico delle Forze armate da 220.000 a 170.000 unità.
  • reimpiego di circa 20.000 unità del personale delle Province messe a disposizione di altre amministrazioni, in particolare di quelle della amministrazione giudiziaria.
  • piano di efficientamento delle strutture ospedaliere, con individuazione di 32 esse fuori norma con assegnazione di 3 anni per rientrare nella regolarità.
  • incentivazione alla fusione dei piccoli Comuni con 120 aggregazioni avvenute.
  • taglio delle macchine di servizio (30.000 vetture), dei servizi mensa e del consumo di energia negli enti pubblici.

Il tutto ha permesso questi risultati:
1 – il risanamento dei conti pubblici con riduzione dell’indebitamento netto passato dal 3% del PIL al 2.4%.
2 – diminuzione della pressione fiscale dal 43.6% del 2013 al 42.3% del 2016.
3 – finanziamento dei servizi pubblici essenziali con prestazioni previdenziali e assistenziali per 12.7 miliardi, sanità 3.7 miliardi, scuola 3 miliardi., migranti 3.4 miliardi, sicurezza 1 miliardo, cultura 1 miliardo.

Cosa rimane da fare?

Il lavoro è ancora lungo e complesso.
Occorre sicuramente continuare, completare e mantenere il lavoro iniziato di efficientamento e razionalizzazione della spesa. Rimane il grande capitolo della sicurezza delle città e delle periferie, con gli accorpamenti ormai non più rinviabili delle forze dell’ordine. E rimane il problema dell’immigrazione, che non può più essere lasciato a ‘maglia larga’, pena il mancato controllo sociale e della spesa stessa.

Vi sono poi alcuni argomenti che dovranno essere affrontati e che il documento cita solo in parte.
Per esempio, il risparmio energetico nelle città, con un progetto legato alla Cassa depositi e prestiti per la conversione in Led di tutte le illuminazioni delle pubbliche amministrazioni (per un risparmio del 50%). C’è poi ancora sul tavolo l’analisi della spesa pensionistica, per la quale non ho ancora avuto modo di esaminare documenti che ci facciano capire con precisione la sua consistenza nei diversi capitoli.
Infine, la trasformazione tecnologica da energie inquinanti a energie pulite, seguendo gli ultimi accordi di Parigi e per i quali non emergono ancora ragionamenti concreti sulla loropur  graduale realizzazione in Europa e in Italia.

Ma alla fine dei ragionamenti mi sorgano spontanee alcune considerazioni.

La prima riguarda l’azione del governo Renzi e dell’attuale governo Gentiloni, sempre con il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan.
Dell’enorme sforzo compiuto sforzo in questi tre anni abbiamo detto. I numeri parlano chiaro e credo non sia stato facile raggiungere l’equilibrio dei conti e la necessità di riavviare lo sviluppo del Paese, affrontare i problemi sociali e quelli internazionali come l’immigrazione.

Quindi i detrattori (e sono molteplici, ben organizzati e sostenuti da molti organi di stampa) hanno torto se dicono che siamo al punto di prima, perché di una azione altrettanto concreta ed efficace è difficile trovare traccia nella storia recente del nostro Paese. Né si sono ascoltate in questi anni ricette alternative in grado di dare risultati migliori, perché tutte, inevitabilmente, avrebbero portato al risultato opposto: aumentare quella spesa pubblica che invece andava inderogabilmente tagliata.

Ma, appunto, ancora molto rimane da fare.
Tenendo presente le risorse necessarie per il sociale e lo sviluppo, mi chiedo come sia possibile, con un bilancio in parte corrente in sostanziale pareggio, fare diminuire quel debito pubblico di 2.217 miliardi, il 132% del Pil, per recuperare almeno parte di di quei 66.3 miliardi che paghiamo di interessi.  Soldi che ci farebbero tanto comodo per gli investimenti, il rilancio dell’economia, la diminuzione delle tasse, la riconversione delle periferie.

Non vedo alternative: dobbiamo fare crescere il PIL, in modo da generare nuove risorse. E proseguire con le privatizzazioni. Ma sempre con la massima attenzione ai conti, senza cullarci in facili ottimismi.
Per realizzare questo obiettivo occorre naturalmente un governo autorevole e saldo, che possa lavorare in un clima di stabilità per almeno un quinquennio, ben dentro e non certo fuori dall’Europa.
Solo che con l’attuale legge elettorale non mi pare facile che ciò si realizzi: ma questo è un altro discorso e ne vedremo gli sviluppi nei prossimi mesi.

Alberto Ravaioli

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