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Chicchi, art. 18: “Un’etica pubblica da due soldi?”

Giuseppe Chicchi, già sindaco di Rimini e ora aderente a MDP, invia un suo commento sulle ultime vicende politiche che hanno portato alla rottura delle trattative fra Partito Democratico e lo stesso MPD  per un’alleanza elettorale:

Lo scontro a sinistra diventa incandescente dopo l’affossamento di ieri 22 novembre (rinvio in Commissione poco prima della fine della legislatura) della proposta MDP di ripristino delle tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Si parla di “pietra tombale” (Bersani- MDP) e di “pietre tombali” (Fassino-PD) sul rapporto fra le due forze politiche.

Se si parla di tombe vuol dire che non c’è allegria disponibile!

Al di là delle polemiche, destinate a diventare ancor più acute in campagna elettorale e nella speranza che da entrambe le parti si ricordi che “dopo”, comunque vada, si dovranno trovare terreni comuni, questa vicenda parlamentare nasconde almeno un pregio: si discute di cose finalmente concrete. Perché concreta è la questione del “reintegro” in caso di licenziamento illegittimo.

Un breve sguardo alle origini dello Statuto serve a capire meglio la questione. Lo Statuto porta il nome del Ministro del Lavoro Giacomo Brodolini e divenne legge nel marzo del 1970. Brodolini era un sindacalista, prima del Partito d’Azione, poi del PSI di cui fu vice Segretario. Lo Statuto interveniva in una fase storica caratterizzata da grande sviluppo e da vaste lotte operaie e studentesche. Si poneva perciò con forza il tema della definizione di diritti e doveri nel rapporto di lavoro.

Il fatto politicamente rilevante fu che per la prima volta la Costituzione e i diritti in essa previsti, entravano nelle fabbriche.

Il Centro-sinistra di allora capì due cose:

a) regolamentare il conflitto avrebbe ridotto gli scioperi;

b) le lotte operaie, se regolate, non solo sono legittime, ma anche necessarie perché stimolano le imprese all’incremento della produttività e degli investimenti tecnologici.

I Sindacati poi si batterono per lo Statuto per ragioni di principio e per le libertà sindacali (assemblee, rappresentanze, ecc.), ma anche perché i suoi quadri operai e i suoi iscritti erano spesso vittime di licenziamento. Anche a Rimini, all’SCM, ci furono episodi discriminatori.

Da allora, per quasi 50 anni, i licenziamenti dovevano avere una “giusta causa”, altrimenti scattava il reintegro obbligatorio in azienda. Gli “spiriti selvaggi” della lotta di classe (quella dei padroni e quella degli operai) trovavano nello Statuto un punto di incontro su diritti codificati.

Il Job Act ha modificato il diritto al reintegro in assenza di giusta causa, limitandolo al solo caso in cui sia dimostrato che l’azienda ha licenziato con motivazioni inesistenti o discriminatorie (per razza o per sesso, ecc. ): un’accusa falsa o una scusa. Negli altri casi (inadempienze minori, tipo l’arrivo in ritardo in azienda, o motivi economici, tipo difficoltà di mercato inventate), il reintegro è stato cancellato.

In sostanza, se il Giudice dà ragione al lavoratore ingiustamente licenziato, il reintegro è sostituito da un indennizzo economico che con il contratto a tutele crescenti è proporzionato all’anzianità di servizio.

Tralascio per un attimo gli aspetti sociali del problema che pure hanno un peso notevole in periodo di crisi. Richiamo l’attenzione invece sugli aspetti morali della questione e nello specifico sul ruolo di una “etica pubblica” che presiede la convivenza civile fra interessi diversi. La modifica dell’art. 18 dunque propone un’etica pubblica in base alla quale il giudice riconosce l’inconsistenza delle cause di licenziamento, ma il lavoratore riceve un indennizzo economico e resta senza lavoro. Ti do ragione, ma subisci ugualmente il torto!

Questo è il precedente da sorvegliare. Personalmente mi preoccupo perché ci vedo l’idea di uno Stato che monetizza un diritto: oggi al reintegro nel proprio lavoro, domani chissà. Ecco perché l’art. 18 rappresenta la civiltà di un paese.

Giuseppe Chicchi

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