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Chi ha paura comincia a sperare

Noi italiani abbiamo l’endecasillabo nel sangue. Con un endecasillabo si apre il cantiere della vita. “Hai voglia di fare l’amore con me?”. E allora con “Chi ha paura comincia a sperare” si apre – invece – il cantiere della resistenza. Quello che stiamo attraversando in questi giorni è un’occasione per non limitarci a galleggiare nella paludosa placenta delle nostre case. Per non impigrirsi e depauperare la nostra natura istintivamente gregale.

In questo tempo di clausura forzata c’è voglia di rispettare l’isolamento nell’interesse collettivo della salute pubblica ma parimenti si avverte l’urgenza di porre una diga al presente che ci sta letteralmente sommergendo, rischiando di farci affogare. Il presente è inquinato, infetto, corrotto da un virus. L’etimologia di virus è ‘un alacre assalto al fortino del nostro corpo’.

I mezzi di comunicazione di massa completano con la stessa alacre e spasmodica virulenza l’assalto alle nostre menti, alle nostre coscienze, alle nostre anime. Stretti in questa morsa rischiamo tutti di soffocare. Di soccombere. Quale strategia per non essere stritolati? Elementare. Fuggire dal presente. Ma non per andare molto lontano. Facendo semplicemente un passo per entrare nel territorio magico dell’adesso. Ad ipsum. Sottinteso momentum, momento. All’interno del presente che ci vede soggiogati dalle contingenze, dobbiamo fare esplodere l’adesso. Il momento. Cioè, il movimento. L’adesso è il regno delle scorribande nel passato, nel futuro, nella fantasia, nell’immaginazione, nel sogno, nella visione, nel ricordo, nelle letture, nella profezia, nel vuoto, nel silenzio. È la grande occasione di riprendere una penna in mano e scrivere. Scrivere non è solo far colare inchiostro sulla carta. È – prima di tutto – mettersi all’ascolto.

L’ascolto è la religione che ci lega al mondo, all’umanità che lo popola. L’ascolto è l’azione della prossimità, che ci invita ad altra prossimità. Ad anelli concentrici. Il nostro corpo epicentro del sisma che ci pervade dopo avere prestato attenzione. Combustibile del desiderio. L’uomo racconta storie per evocare e convocare l’assenza. Quello che non può portare con le mani lo porta con le parole. Le parole udite nella prossimità giungono impregnate di odori e profumi, di colori e venature che giungono da lontano. L’ascolto è il primo passo per mettersi in cammino. Le due etimologie di trovare: colpire e incontrare. L’ascolto ci colpisce e ci spinge a incontrare.

Approfittiamo di questa quarantena per trasformarla nell’arte dell’ascolto dello spazio nel quale siamo confinati a vivere – per continuare a vivere. Cosa hanno da raccontarci le persone che condividono le mura domestiche? Se ascoltiamo bene, anche le mura racchiudono delle storie. Ebbene, dall’astrazione di questa riflessione passo a un episodio concreto attinto dalla mia primissima infanzia. Per raccontarvi una storia. Una tra le tante. Un pezzo della mia storia. Invitandovi a fare la stessa cosa.

Bambino allevato nel grembo di una casa vecchia di duecento anni, – costruita in sabbia e in pietra, con mura spesse e finestre dotate di sbarre prigionali, al centro di un paese di poche anime anche se piantate in corpi forti e resistenti alla fatica e alle nebbie piemontesi -, che vedeva nel presepe tutta la magia di un luogo esotico oltre ogni immaginabile latitudine terrestre. C’erano rappresentati tanti mestieri. Animali pascolanti in libertà, soprattutto pecore e caprette. Casette con piccole lucine che io pensavo emanassero calore come tanti piccoli soli. Fiumi sberluccicanti di carta che io immaginavo, ugualmente, essere liquidi e zampillanti di pesci. Non c’erano armi, e questo è un dettaglio che mi era già caro. Sacro. C’era la capanna in cui una notte sarebbe nato un bambino prodigioso, riscaldato dal solo fiato di animali (che avrei desiderato tanto anch’io al mio fianco, visto che la vecchia casa era mal riscaldata per naturale e vetusta costituzione edilizia e – soprattutto – per risparmiare cherosene, viste le non abbienti risorse economiche familiari).

C’era del muschio che – invece – era veramente muschio. E io mi chiedevo – dove si trovasse questo eden meraviglioso. “A Betlemme”, rispondevano mio padre e mia madre. In coro. A Betlemme. Betlemme. Una parola magica, apotropaica. Evocativa del mistero immenso dell’altrove. Avrei scoperto molti anni dopo che in arabo significa “casa della carne” e in ebraico “casa del pane”. Ma pur senza saperlo – quella parola era già cibo per me. Nutrimento per la mia fantasia. Vagheggiavo dentro casa mondi inesplorati. Tutto questo all’età di neanche tre anni. Quando un bel giorno, nel piccolo paese dove abitavo, Settimo Rottaro, vedo giungere un gregge di pecore belanti e scampanellanti.

Quell’immagine mi ha evocato – immediatamente – le pecore e le caprette di cui il presepe era costellato. E per un attimo, ho pensato che quel mondo – tanto vagheggiato – si fosse materializzato proprio lì, in quell’istante, davanti a me. Solo per me. La gioia è stata – e resta – indescrivibile. Paragonabile solo a quello che molti anni dopo avrei compreso essere un orgasmo. L’estasi immaginifica di un bambino catapultato dentro le sue visioni. Così, senza riflettere, mi sono messo a correre dietro a quelle pecore che stavano attraversando il paese e mi sono mescolato a loro. Non raggiungevo nemmeno l’altezza del loro garrese. Quando improvvisamente mi sono sentito agguantare dalle grandi e forti mani di mio padre, a metà strada tra l’ilarità e la preoccupazione. La fierezza del padre che, da un lato, apprende quanto suo figlio fosse prematuramente intraprendente e, dall’altro, lo sbigottimento per questa fuga dal nido materiale.

“Ma dove stai andando”, è stata la domanda – come sempre, affettuosamente seria – di mio padre. “A Betlemme”, è stata l’immediata e candida mia risposta. Il nutrimento ricavato da quella parola magica mi aveva spinto a partire per il mio primo grande viaggio. Questo accadeva nell’anno 1968. All’età di tre anni. La temperatura politica del più grande movimento di protesta del secolo scorso – sicuramente – aveva surriscaldato anche il mio animo di bambino, destinato a diventare un ribelle – nonostante la meta religiosa non lo facesse presagire. Certe parole – che diventano vere e proprie esperienze di vita – lievitano dentro di noi come una pasta madre che fermenta lentamente per giorni, mesi, anni. Fino a quando il suo volume non può più essere contenuto in noi. E tracima. E diventa nutrimento del desiderio che quasi sempre si avvera. Infatti, tra i quaranta e i cinquant’anni della mia vita sono stato sette volte a Betlemme. Per ragioni troppo lunghe da spiegare, che fuorvierebbero il senso di quest’avventura.

Betlemme non è propriamente dietro l’angolo. Non è un luogo scontato in cui imbattersi per sette volte. Sette diversi soggiorni, permanenze. Città attraversata con ogni mezzo di trasporto. A piedi. Per mano (e sapientemente guidato) della mia compagna di vita. Ale. Alla guida (diversa e più facile del “guidato” di prima) di un’auto di un fraterno amico palestinese. Tutto questo è accaduto a un bambino che ha provato a fuggire dalle nebbie lattiginose che colavano dal cielo di certe mattine pedemontane, per inseguire il suo sogno. L’unico luogo che i genitori gli avevano indicato – fatta eccezione della piccola costellazione di paesi in cui il bambino era nato e stava crescendo. Genitori poco viaggianti e per nulla viaggiatori. Betlemme. Parola-scintilla che ha acceso la miccia della curiosità di un bambino.

Il primo verso – andare verso – della mia vita. Nomade. Errante. Quell’andare vagando come brancolante fra le tenebre. Le tenebre che calavano da subito sulla mia stanzialità. Alla rincorsa di un gregge. Di una moltitudine che si aduna, si avvicina, si accosta. Il formarsi di una comunità. Forse è anche per questo che ho passato tutta la vita a costruire comunità, intese, alleanze. Relazioni. Ad aggregare. A entrare a far parte del gregge umano. In quella rincorsa di bambino c’è tutta la potenza di un gesto profetico. Il destino non è da ricercare nel tempo a venire. Nell’avvenire. Il destino è la costellazione tracciata unendo i punti delle nostre traiettorie esperienziali. Tempo che racchiude spazio. Spazio che racchiude tempo. Noi uomini siamo talpe che s’immergono nel tempo e nello spazio, nutrendosi di vermi. E scavano. Fino a rendere cava quella parte di mondo che noi perlustriamo alla ricerca spasmodica della felicità. Solo dove c’è cavità c’è possibilità di fecondare, di rendere pregna la terra cava. Un bambino di tre anni che – senza saperlo – in quella rincorsa s’immergeva nel tempo e nello spazio, per fuoriuscire quarant’anni dopo. A Betlemme. La casa della carne. La casa del pane. Per fuggire dalla casa di sabbia e di pietra.

Paolo Vachino

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