Una lettera aperta da Paolo Vachino a Michele Marziani in occasione della presentazione del suo volume “Il suono della solitudine. Piccole storie da raccontare a te stesso” (Ediciclo Editore), che sarà presentato venerdì 30 novembre alle 18 alla Feltrinelli di Rimini.
Quando nel titolo c’è una sinestesia è chiaro che il testo porterà inscritta questa impronta. Parole che si riferiranno a sfere sensoriali diverse. L’uomo che parla di scrittura e lo scrittore che parla della vita dell’uomo. Come se la sinestesia suggerisse che si deve percepire tutto assieme. Uomo e scrittura che si con-fondono.
Eremitaggio laico. Questo è un ossimoro, invece. Eremo è un luogo solitario, desertico. Laico è il popolo. Un solitario che appartiene al popolo. Che comprende fin da bambino che il segreto non è piacere agli altri, ma vivere come piace a te. Uno che fin da piccolo era insofferente agli obblighi imposti dalla socialità. Sono belle le riflessioni intorno al senso di inadeguatezza agli altri. E si impara che si può vivere in solitudine ma non da soli.
Poi provi a rispondere alla domanda: tu chi sei? In due pagine eccelse tessi la tua trama. Che non è una forma chiusa. È un flusso. Uno scorrere di tempo attraverso la carne e i pensieri. Una precipitazione dal complesso al semplice.
Nessun garbuglio. Un pettine che sbroglia. La ricerca di uno spazio d’incidenza. L’idea di libertà cantata da Gaber, anche se nel testo della canzone, per ragione metrico-musicali, la libertà è diventata “partecipazione”. Tu sei un partecipe. Uno che prende parte. La sua. Uno che comunica al mondo lo spazio che vuole occupare da solo. Ma sempre con la porta aperta.
Quindi, il paradosso dell’essere un solitario è quello di richiamare una moltitudine di persone a bussare alla tua porta. Per respirare insieme a te il silenzio che sei riuscito a creare. E così dell’amicizia preferisci di gran lunga i gesti alle parole. Mentre il viaggio ti porta fuori dalla solitudine stanziale per vivere ancora meglio l’eremitaggio laico. Tra le cose. Dentro le cose. Come la viandanza mattutina nei mercati alla ricerca di cibo fresco. Mai accumulare.
L’essenziale per un pranzo. Quel pranzo. Ogni giorno unico e irripetibile. L’ascolto – preferito di gran lunga al dirsi. Il rapporto controverso con la notorietà. La vertigine della base e non dell’altezza. Il mare che lambisce preferito alla vetta che opprime. Il tuo compromesso ultimo è vivere in una casa di cinque piani. L’intersecarsi tra orizzonte e vetta.
All’ombra di una montagna – il Monte Rosa. Che spinge a uscire per le strade. La strada: l’utopia dei tuoi vent’anni. Uscire per le strade come “fratelli dei cani”. Convochi Pasolini per congedarti da questo tuo libello elogiativo della solitudine. Il visionario che sapeva guardare negli occhi la luna mentre tutti si limitavano a porre gli occhi sulle dita che la indicano. Lo sprecare la vita da parte di chi non ha coraggio di spingere lo sguardo all’orizzonte. Il tuo essere – oggi -, invece, in cammino verso il secondo orizzonte.
È il tuo libro più intenso. Non hai convocato personaggi a saccheggiare la tua intimità domestica per raccontare la loro storia. Questa volta li hai lasciati fuori dalla porta per il tempo necessario a incontrarti. Sei riuscito a non lasciarti irretire dalle sirene nostalgiche. Dal rimpianto di allora. Non tracci bilanci. Ma riempi la bilancia della tua scrittura di tracce.
Non ti interroghi. Non formuli domande. Non ti piacciono gli esami. I guasti degli esami chiamati di riparazione. Semplicemente ti stimoli. Ti ascolti. Ti stupisci e ti accetti. La tua vita è stata così: un accadere di eventi. Non delle tappe da compiere. Racconti lo scorrere della tua vita in un tempo diverso. E questo ti permette di essere un contemporaneo. Uno che non si danna per quello che lo circonda. Uno che riesce sempre a smarcarsi dalle convenzioni. Dal conformismo. Per questo hai scelto il performismo della scrittura. Uno che esegue. Porta fino in fondo il gesto della scrittura.
La solitudine – dici molto bene – è stare in equilibrio su di un abisso. Occorre la fortuna di essere integri nel corpo. Di non dovere dipendere. Ma di pendere dall’albero dei propri desideri. Solitudine rima con inquietudine e con mansuetudine. Inquieto è colui che teme di sprofondare nella quiete, di affogarci dentro. E quiete ha lo stesso etimo di cittadino. La paura di sprofondare nelle civiltà, nella società, negli obblighi imposti dalla cittadinanza. Per questo la solitudine è rimedio contro questo affanno. La mansuetudine, invece, è la bestia che viene addomesticata dalla mano. La tua. La calma dell’istinto dentro la bolla dell’eremitaggio laico.
Questo tuo libro è molto di più di una testimonianza. È il racconto di un superstite, un supertestimone, uno che non parla per sentito dire ma per sentito agire dentro le proprie fibre. E la scelta della scrittura, quale coronamento spontaneo a un’indole solitaria è l’ultimo gradino – sopra – all’essere superstite. Il martirio. Non nel significato ecclesiastico – spodestante la vera etimologia: ma nel senso di chi sceglie deliberatamente di prendere una distanza da ciò che è prossimo, per colmarla con la restituzione della parola.
È il libro scritto da un maestro seduto nell’ultima fila dei banchi vuoti di una scuola di periferia.
E che da lì, attraverso le parole di questo libro, si è fatto – e ha fatto – centro.
Paolo Vachino