Per un anno e mezzo tra il 1956 ed il 1957 mio cugino Franco di Novafeltria ha abitato a Rimini con la famiglia. Prima all’inizio di via Pascoli poi in zona Santa Chiara.
Vicino Santa Chiara in corso Garibaldi c’era una ferramenta. Una volta Franco era andato a prendere del materiale in ferramenta, forse chiodi, forse delle guarnizioni in metallo, forse altro. Mio cugino parlava molto in dialetto.
Al proprietario, un riminese adulto aveva detto “dèm un crei ad ….” “dammi (o mi dia) un po’ di ….”.
Lui aveva capito subito il significato della parola “crei” (significa “un po’” e deriva dal termine italiano creanza, poiché il “boccone della creanza” era quello che l’ospite lasciava nel piatto per dimostrare che il cibo era stato più sufficiente) perché prima di tutto le persone all’epoca erano molto perspicaci nel dialetto e poi quella frase l’aveva certo sentita dire altre volte da qualcuno originario dell’Alta Valmarecchia.
Ma si trovavano a Rimini e lui voleva enfatizzare la cosa. Allora da riminese verace qual’era, da dietro il banco aveva “dato su” dicendo: “Sel cl’è un crei ? U sa da dì un crei ? Us dis un pzulìn, un bijnìn”.
Allora mio cugino aveva risposto che “te Mercatein us dis un crei”, poi ha ripetuto la sua richiesta in italiano.
Il dialogo tra l’ironico ed il bonario si è concluso con l’acquisto del materiale.
Parlavo poco tempo fa con un conoscente che abita a Viserbella ed era presente anche un’amica di Rimini. Ho chiesto a quello di Viserbella come dicevano loro “noioso” in dialetto. Noi diciamo “gnorgna” mi ha risposto.
Gli ho chiesto se conoscevano anche il termine dialettale “ploia” che a Novafeltria viene interscambiato tranquillamente con “gnorgna”. L’amico ha detto che loro a Viserbella non conoscevano quel termine. E’ possibile quindi che anche a Viserba non conoscano il termine dialettale “ploia”?
Sul Dizionario Romagnolo (Ragionato) di Gianni Quondamatteo leggiamo: “Scrive un noto vocabolario: «Plòia, arcaico per pioggia, dal provenzale ploia» . Un nostro collaboratore ci parla di «leggero strato vischioso che la pioggia lascia sul selciato, fastidioso e pericoloso perché fa scivolare. E per estensione, seccatura, fastidio». Altri ci dice che il termine plòia vale gnorgna, bursòs. L’è na plòjia, è una persona noiosa, un seccatore, un attaccabottoni”.
L’amica che era presente ci ha detto infatti che a Rimini si usano indifferentemente i termini “gnorgna” e “ploia”. Come a Novafeltria del resto.
Esempi di situazioni in cui si usano questi termini. Se uno ti assilla con domande o con richieste varie, dopo un po’ quando ti sei spazientito del tutto gli dici “che gnorgna (o che ploia) che mi fai!”
Anni fa parlavo con l’amico Sergio di Viserba. Suo babbo era un viserbese verace di quelli “da sette generazioni” e suo figlio aveva imparato bene da lui il dialetto di Viserba. Una volta Sergio mi aveva detto “a so strach sc-ent” “sono stanco schiantato” nel significato di non avere più alcuna energia in corpo.
Allora ascoltandolo mi è subito venuta in mente la frase analoga in dialetto di Novafeltria che è invece “a so strach slimbet” “sono stanco che mi cedono i lombi” nel significato di cadere a terra dalla stanchezza.
Sia il termine “crei” al posto di “pzulìn, bijinìn” che il modo di dire “a so strach slimbet” al posto di “a so strach sc-ent” mi piacciono molto di più come termini e suoni dialettali.
Non mi piace il riminese “sa fèt, sa fàl” che significano “cosa fai, cosa fa”.
Mi piacciono ancora meno i corrispettivi novafeltresi “chit fè, chi che fà” che devo ammettere hanno poco di romagnolo.
A Rimini e nella sua provincia i comuni a sud, in dialetto si usa dire “isè” per significare “così”. Sulla costa riminese da Torre Pedrera in poi si dice invece “acsè”, come anche a Santarcangelo, Verucchio e Torriana e come del resto a Novafeltria.
L’amico Sergio quando parlavamo dei dialetti diceva, beninteso senza conoscerlo, che il dialetto di Novafeltria non era un dialetto romagnolo. Si faceva confondere come molti allora dalla provincia di appartenenza di quella volta,
che era Pesaro. Io replicavo dicendo che quello di Novafeltria era un dialetto romagnolo ma ammettevo che aveva alcuni modi di dire spuri, che risentivano però più del toscano che del pesarese. Dicevo rincarando la dose che anche il dialetto di Rimini non era certo da considerarsi il romagnolo per eccellenza!
Aggiungevo inoltre che il dialetto novafeltrese era irraggiungibile da parte di quello di Rimini riguardo certi francesismi contenuti, cioè l’uso dei dittonghi che sono due vocali pronunciate insieme. Portavo come esempio:
Da voi si dice “i pantalun, i calzun” da noi a Novafeltria si dice invece “i pantaluon, i calzoun”.
Comunque per “tagliare la testa al toro” una volta gli ho chiesto di dirmi una parola in dialetto viserbese stretto ed io quella parola l’avrei riferita a mio cugino Franco che parlava bene il dialetto di Mercatino, addirittura quello dei primi anni ’50, per vedere se ne sapeva il significato.
I primi anni ’50 te Mercatein erano veraci e nostrani. Le macchine che giravano erano poche, per le strade si vedevano quasi solo i furgoncini col cassettone dietro, di proprietà degli artigiani che li usavano per il loro lavoro.
Avevo premesso a Sergio che anche se mio cugino il significato di quella parola non l’avesse saputo, la cosa non era indicativa in quanto tutti i dialetti come del resto quelli romagnoli, variano tra loro ogni 5 km circa di distanza.
La parola scelta dal mio amico in viserbese stretto era “Ariut” che come mi spiegò lui significa “Rivincita”.
Alla prima occasione in cui ero a Novafeltria da Franco gli ho ho chiesto se conosceva il termine dialettale “Ariut”. Lui dopo un attimo mi ha detto “sì, significa Rivincita” aggiungendo che quel termine “te Mercatein” lo si usava di solito quando si giocava a carte o a bocce.
Sono rimasto stupefatto.
Rimini ed i suoi dintorni sono a pieno titolo in Romagna come lo è anche a modo suo Novafeltria, Mercatein.
Gaetano Dini