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Una “officina” di poesia nelle carceri italiane

L’Italia è ricoperta di boschi naturali e culturali. La comune caratteristica è di essere entrambi determinati nella loro forma dai centri di potere. Poi esiste un ampio sottobosco selvatico, un orto sinergico di creatività e di generosità, realtà non rintracciabili dal radar della torre di controllo massmediatica.

L’OFFICINA (Onlus) è un’associazione composta principalmente di volontari, nata nell’anno 2010 dalla volontà primaria di un poeta marchigiano – Alberto Ramundo – e della sua compagna – Giulietta Cardellini -, di portare la poesia all’interno delle carceri italiane.

Il primo carcere in cui L’OFFICINA ha trovato accoglienza è la Casa Circondariale di Pesaro, cui ben presto sono seguiti il carcere di massima sicurezza di Fossombrone, quello di Camerino, di Montacuto e Barcaglione ad Ancona, e ultimo la casa circondariale di Ascoli Piceno. Nel corso degli anni, i fondatori hanno reclutato altri collaboratori, fra cui diversi riminesi compreso chi scrive in questo momento.

L’idea è semplice ed efficace. La poesia è il pane di tutti. Sfama. Nutre. Negli spazi drammatici della reclusione le parole pesano quanto le pietre. Portare poesia in carcere non è per noi introdurre il narcisismo autoreferenziale tipico di chi ama solo etichettarsi poeta, ma al contrario, è mettersi al servizio di chi ha perso la condizione della libertà, per aiutarlo a trasformare le parole pietre in parole aquiloni, tornando così libere di volare nel cielo dell’intelligenza e della sensibilità.

Ammesso che sia giusto perdere la libertà a seguito di una condanna, di sicuro non è giusto perdere la dignità. Anzi, proprio in quegli spazi angusti e squallidi, la dignità dovrebbe avere la concentrazione più alta che una democrazia sia in grado di esprimere. Ma questo discorso ci porterebbe lontano; sposterebbe il baricentro dell’attività della nostra associazione sul piano politico e sociale, mentre quello che noi abbiamo scelto di affrontare è esclusivamente quello umano.

Come si svolge un normale laboratorio di poesia? Ogni istituto penitenziario assegna dei giorni per accedere alle celle dei detenuti e la cadenza dei nostri ingressi è settimanale, per la durata di una decina/ventina d’incontri. La prima diffidenza da sciogliere è quella della polizia penitenziaria, che, tranne che in rare eccezioni, non vede di buon occhio le persone che tentano di portare sollievo a quelli ritenuti immeritevoli di ogni cura e attenzione.

Si avverte subito la tensione che scorre tra detenuti e agenti. Per questa ragione, dopo lungo riflettere, la nostra associazione ha redatto e visto approvare un progetto laboratoriale anche per la polizia penitenziaria. L’esperienza ci ha insegnato che il trauma della reclusione è spartito – anche se non equamente – su entrambi i versanti della realtà carceraria. Anzi, allo stato attuale si potrebbe quasi asserire che sono gli agenti stessi a essere psicologicamente (quando non fisicamente) più lacerati. Perché un carcerato spera sempre in un ‘fine pena’, in un’amnistia, persino in un’evasione, mentre l’agente ha scelto di entrare dietro le sbarre per il resto della sua vita. Infatti, a conferma di ciò, oggi il tasso di suicidi è più elevato tra gli agenti penitenziari che non tra i detenuti.

Ma tornando ai nostri laboratori, essi hanno la durata di due ore, chissà perché quasi sempre combacianti con quelle dedicate all’ora d’aria. Perciò un detenuto è costretto a scegliere tra incontrare noi, all’interno di una cella, o uscire all’aria per una partita di calcetto o una camminata ritemprante e ristoratrice.

A giudicare dal successo della partecipazione ai nostri incontri, si potrebbe quasi affermare che c’è molto più ossigeno tra i versi di una poesia che all’interno del cortile del carcere. E nella casa Circondariale di Pesaro da svariati anni il laboratorio vede la partecipazione mista di uomini e donne. Ci onora essere stati i primi a ottenere questa concessione dal responsabile dell’area pedagogica – Dr.ssa Enrichetta Vilella -. E funziona. Senza neanche troppo sforzo.

Il nostro successo è attribuibile al nostro approccio poetico. La poesia appartiene a tutti ed è il primo balbettio verbale che l’uomo ha conosciuto per richiamare l’attenzione di un’altra creatura che potesse ascoltare la sua storia. Le storie vengono dopo. La poesia è il richiamo sonoro (è questa la ragione dell’inscindibilità tra verso e canto) che cattura un’attenzione, che devia una traiettoria, che aiuta a svoltare. Andare a capo è svoltare quando è finito il respiro. Questo proviamo a insegnare. Che il ritmo della poesia è identico al nostro respiro, alla velocità con la quale mastichiamo il cibo, il passo lento di una nostra camminata. La poesia si scrive con lo stesso spirito con il quale mettiamo ordine nelle nostre stanze, con lo stesso umore con cui ci innamoriamo.

Nell’era dei mezzi di comunicazione di massa noi ci concentriamo sull’espressione di un singolo individuo. Stiamo agli antipodi. Ma non per vocazione nannimorettiana di far sempre parte di una minoranza, ma per avere compreso che è possibile poesistere, cioè vivere un’esistenza intrisa di poesia. Pensando quindi che la poesia serva la vita e alla vita, noi ci mettiamo al servizio dei detenuti per contagiarli della nostra passione poetica. Una passione civile, oggi, che deve fare i conti con l’indifferenza generale.

Ma i risultati raggiunti in questi incontri sono strabilianti. La parola poetica restituisce dignità e libertà alle esistenze, svincolandole da pensieri ininterrotti di violenze e di raggiri, per ricondurli nell’alveo del rispetto e della compassione nei confronti di tutti. I detenuti scrivono molto, anche se all’inizio le parole sono ancora tutte intrise di diffidenza e di ovvietà. Sono come delle coperte immaginarie di parole per proteggersi dal freddo degli abusi e delle menzogne.

La poesia smaschera l’uomo dalla sua ipocrisia, elimina la sua tensione ai convenevoli – parlare di tutto ciò che è vacuo e superfluo per sconfiggere la paura di non sapere niente -, affretta il passo verso la guarigione: imparare a sentire nel profondo cosa c’è dentro di se e dentro a ciascuna persona con la quale entriamo in relazione. Le parole sono un pretesto per solleticare ricordi, rimuovere la ruggine dei rimorsi e dei sensi di colpa, uscire dalla logica imposta dal Capitale che prevede un unico verbo ausiliario – avere -, e provare a fare i conti – spesso con molta fatica, con l’unico ausiliario di cui l’umanità ha sempre avuto bisogno e ne è sempre stata carente. Essere. La poesia aiuta a vincere l’omertà verso le proprie emozioni. Ogni parola richiede tempo per essere incontrata e conosciuta. E di questo tempo abbondano le nostre carceri: di un tempo che fecondi e non seppellisca la nostra umanità.

Una detenuta nigeriana ha scritto un verso bellissimo: “In Italia la povertà è un reato”. E questi versi – anche se non tutti straordinari – alla fine di ogni laboratorio vengono raccolti in un libro, che viene stampato e pubblicato dalla piccola casa editrice interna alla nostra associazione. Il giorno in cui vengono portati i libri stampati e fatta una lettura pubblica nella sala degli incontri del carcere, vengono invitati tutti i detenuti, non solo quelli partecipanti ai corsi: il locale si trasforma in una grande festa. Si festeggia l’avere fatto tutti una straordinaria esperienza di ascolto dell’altro.

Noi siamo soliti ripetere sempre un’espressione, appresa dal magistero di un grande artista quale è stato Renzo Casali, fondatore della Comuna Baires, teatro di ricerca e di denuncia che negli anni settanta ha contribuito alla redenzione culturale di una nazione con forte vocazione al qualunquismo e alla mediocrità: “Senza l’altro saremmo in due a non esserci”. Queste parole scavano nelle nostre vite come in quelle dei detenuti, che sembrano scoprire per la prima volta che è grazie a cosa l’altro è disposto a donare a noi che dipende la parte più consistente della nostra identità.

C’è un aneddoto simpatico da raccontare, in chiusura di questo breve reportage all’interno di uno spazio di confine tra il disinteresse e il vituperio sociale. Un giorno, entrando nel carcere di Fossombrone, durante la fase dei controlli di accesso alle celle, siamo stati trattenuti dagli agenti di sicurezza, che mutando a ogni nostro ingresso, ci rivolgevano più o meno le stesse domande (come la magistrale ironia di Benigni e Troisi in “Non ci resta che piangere” ci ricorda: “Chi siete, cosa volete, dove andate……un fiorino”). Non trovando il nome della nostra associazione sull’elenco degli autorizzati ad accedere, un poliziotto ha telefonato al comandante di turno, il quale deve avere chiesto dall’altro capo del filo di che cosa ci occupassimo (scrittura, teatro, laboratori artigianali, etc). La risposta è stata: ambulatorio poetico”. Il refuso sostituente laboratorio ci è sembrato essere – anche se assolutamente involontario – il più alto riconoscimento ricevuto sul campo.

Siamo un ambulatorio poetico, cioè, un luogo destinato alla cura di pazienti, la cura di chi patisce un’emarginazione (condivisibile o meno che sia). Portiamo semplicemente il primo soccorso poetico, per aprire la strada a quella che la nostra Costituzione, prima che venga stravolta, definisce “tendere alla rieducazione del condannato”. Ri-educazione, perché un condannato è già stato educato. Non è un animale che esce dalla gabbia. È un umano impoverito di umanità. E il condannato non è un dannato che deve scontare pene infernali. Ma deve ritrovare il senso del giusto e del bello per tornare a prendere parte al consorzio umano. La parola officina, che dà il nome alla nostra associazione, ha tra i suoi significati etimologici anche lavoro. Siccome l’articolo uno della nostra Costituzione, prima che venga stravolta, ricorda che il lavoro è un pilastro della nostra democrazia, noi cerchiamo di portare avanti senza infingimenti e ansie di protagonismo il duro lavoro di chi crede che in ogni uomo ci siano infiniti strumenti di riscatto. Attra-verso la poesia cerchiamo semplicemente di (ri)attivarli.

Paolo Vachino

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