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Campedelli, Vescio e Leoni, archeologi del terzo millennio fra scavi e social

Sono i detective del nostro passato. Non necessariamente gente d’azione come Indiana Jones, ma certo disposti a ogni fatica e sacrificio, spesso nei luoghi più imprevi del mondo, per dare risposte ai tanti interrogativi che ancora pesano sulla nostra storia. E per riportare alla luce la sapienza, la bellezza o anche la semplice vita quotidiana di chi ci ha preceduto nei secoli.

Stiamo parlando naturalmente degli archeologi, come lo sono anche i riminesi Nicola Leoni e Genny Campedelli e il piemontese Michele Vescio che, tramite la loro associazione Kantharos di Rimini, hanno come unico obiettivo quello di valorizzare e salvaguardare il patrimonio culturale di una città che tanto ha restituito dal suo sottosuolo. A volte per caso, come quando nel 1989 in piazza Ferrari riaffiorò uno ricchissimo complesso di età romana e tardo antica che comprendeva anche la Domus del Chirurgo, con la sua straordinario corredo di strumenti medici.

Ma come si diventa archeologi? E, al di là dei miti, come si svolge veramente questo mestiere? Chiediamolo direttamente a loro.

Che cosa rappresenta l’Archeologia per voi?

Campedelli:  «Per me rappresenta la possibilità di conoscere il passato, per capire cosa sta alla radice del nostro essere oggi: perché facciamo le cose in un certo modo e non in un altro, come l’uomo ha reagito davanti alle crisi di ieri e come ne è uscito, e così via. Insomma, uno studio del passato come chiave di lettura per il presente».

Genny Campedelli

Vescio: «Come è ovvio che sia, per me costituisce l’appagamento di quelle che sono le mie inclinazioni naturali e le mie passioni. A un livello più profondo, però l’archeologia è la mia chiave di lettura del presente. Per quanto io sia affascinato dagli oggetti antichi, rimango pur sempre un uomo del presente e, come tale, sono alla costante ricerca di una spiegazione ai fatti che mi accadono intorno. Non si tratta di cercare nel passato soluzioni e vie d’uscita ai problemi di oggi, perché sono molte le distanze e le differenze che ci separano dall’uomo di ieri, il discorso coinvolge il ‘metodo di ricerca’ con cui guardare il presente. L’archeologia insegna a guardare i contesti ampi; insegna che un frammento è parte di un tutto e che quel il potenziale informativo di quella minuta traccia è poca cosa se non la si può inserire in una prospettiva più grande e unitaria; insegna a non giungere a conclusioni affrettate perché un indizio non è una prova; insegna insomma ad andare in profondità, a continuare l’indagine. Con l’esercizio continuo di questo metodo critico ci si accorge che il passato, se da un lato non può fornirci modelli di comportamento universalmente validi, dall’altro però può darci delle chiavi interpretative ancora oggi attualissime. Sarebbe purtroppo un discorso troppo lungo da portare avanti, ma vi posso assicurare che molti dei fenomeni di cronaca recente hanno il loro corrispettivo nel passato e che questo parallelo, seppur si debbano considerare sempre le dovute differenze, è utile alla riflessione».

Michele Vescio

Leoni: «È difficile raccontare cosa rappresenti per me, perché faccio fatica a guardare a questa disciplina, che per me è lavoro e insieme passione, con il giusto distacco critico. Di certo c’è una forte componente emozionale nella mia concezione. Mi rendo conto che il mio occhio da archeologo filtra la realtà, scandagliando edifici, reperti, libri, generando minuziosi ‘database’, creando connessioni, in una ricerca continua di risposte che in realtà spesso dà origine a nuove, avvincenti domande. Come in ogni branca della scienza, anche in questa non si smette mai di imparare; ogni certezza può essere messa in dubbio da un nuovo ritrovamento, ogni interpretazione può subire modifiche e ravvedimenti. Per questo fare archeologia è, secondo me, mettersi in dialogo con il passato ma, soprattutto, con il presente. Cercare il gioco di squadra con i colleghi, l’integrazione delle competenze, la molteplicità delle opinioni. E da questa dialettica tentare di ricavare una sintesi, che non deve avere la pretesa di essere verità assoluta, piuttosto rappresentare un punto di partenza sul quale continuare a lavorare».

Nicola Leoni

Campedelli, come si è avvicinata a questa disciplina?

«La mia passione è iniziata in terza media durante una gita scolastica al museo Egizio di Bologna: la bellezza degli oggetti e quel mondo così affascinante e lontano mi incuriosirono moltissimo, tanto da scegliere il Liceo Classico e, anni dopo, il Corso di laurea in Scienze Archeologiche».

E lei Vescio?

«Sono sempre stato affascinato dalla Storia. Fin da quanto ho memoria mi sono sempre interessato a tutto ciò che era antico: ho cominciato con i dinosauri, passando per gli Egizi, transitando per i Romani e infine collezionando le anticaglie possedute dai miei nonni. La molla che mi ha spinto definitivamente verso l’archeologia è venuta però molto tempo dopo. Ero al secondo anno di università, frequentavo Lettere al tempo, una delle mie altre grandi passioni è la buona lettura; stavo assistendo alla prima lezione di Archeologia Medievale che avevo messo nel mio piano di studi: rimasi folgorato da quanto si poteva capire del passato a partire da frammenti e reperti tanto umili. La vecchia passione per la storia esplose di nuovo e allora decisi che mi sarei dedicato completamente all’archeologia».

Leoni, ci può raccontare perché ha voluto fare proprio questo mestiere?

«Il merito è stato dei miei genitori, che fin da piccolino mi hanno portato in giro per la Romagna a visitare mostre, esplorare castelli e città perdute, partecipare a rievocazioni storiche e conferenze. Di lì è nata una passione per la storia e per l’archeologia che mi ha sempre accompagnato in tutti questi anni, una specie di fuoco sacro che ho voluto trasformare nel mio lavoro».

Il Museo Egizio di Bologna

Come si diventa archeologi? Si riesce a vivere di questo lavoro?

Campedelli: «Anche se non esiste un vero e proprio albo professionale, per imparare il mestiere dell’archeologo solitamente ci si iscrive al Corso di Laurea triennale e poi magistrale in Beni Culturali o Archeologia; inoltre occorre la Scuola di specializzazione in Archeologia o il Dottorato di ricerca per poter partecipare ai concorsi ministeriali e occuparsi di archeologia preventiva. Come in ogni lavoro, in periodo di crisi mi verrebbe da dire che non si possa vivere di sola archeologia, ma reinventandosi un po’, cercando nuove strade, per esempio una volta terminato uno scavo occuparsi della sua valorizzazione, che ha effetti anche in campo turistico, si possono creare nuove opportunità e possibilità lavorative. Non dobbiamo pensare che l’archeologo sia solo il professionista con la cazzuola in mano e i pantaloni sporchi di terra, ma è anche colui che studia i reperti, che li espone e li racconta».

Vescio: «È ormai entrato nella prassi comune ritenere archeologo chi abbia almeno una Laurea magistrale in Archeologia e all’attivo qualche campagna di scavo. Poi in realtà i percorsi sono molti: si possono proseguire gli studi tramite Scuole di specializzazione o Dottorati, si può intraprendere il lavoro tramite qualche ditta, si può entrare nella macchina statale tentando di vincere concorsi in qualche museo civico o nelle Soprintendenze e così via. In realtà però quelli che riescono a vivere esclusivamente di questo lavoro sono una piccola fetta rispetto al totale dei laureati nella materia. Per mia esperienza, conosco più archeologi che hanno abbandonato la carriera o che affiancano a questa professione qualche altro lavoro. Detto questo, io rimango fiducioso per il futuro della categoria».

Leoni: «Il percorso per diventare archeologo è molto duro. Come risulta da quanto hanno scritto Genny e Michele, servono anni di studi e di gavetta per poter apprendere le tantissime conoscenze di base necessarie ad un approccio corretto alla professione che, più di altre, deve stare al passo con le nuove tecnologie, soprattutto nei campi del rilievo 2D e 3D e della valorizzazione del patrimonio culturale attraverso i social media. Occorre quindi un aggiornamento costante, un’attenzione particolare alle novità del mercato, un forte dinamismo intellettuale. In ogni caso, c’è da sudare e i guadagni a fine mese sono spesso magri. Per questo è necessaria un’enorme flessibilità e adattabilità, però mettendo sempre al centro la qualità. Sono questi alcuni dei principi che tentiamo di mettere in campo anche come associazione, cercando di non adagiarci sui cliché ma rimanendo estremamente aperti agli spunti del nostro staff e dei nostri soci, facendo rete con altre realtà affini, accogliendo con piacere chi abbia progetti e idee da portarci».

Ricostruzione virtuale della Reggio Emilia romana

A quanti scavi avete preso parte?

Campedelli: «Ho partecipato a vari scavi, da Roma a Magdala in Israele, poi dal 2010 a Rimini in vari scavi di emergenza, in particolare a quelli del Teatro Galli, dove abbiamo scoperto tanti momenti della vita riminese dal 1800 al III secolo a.C., parte dei reperti e dello scavo saranno visibili in un museo allestito sotto la platea del teatro».

Vescio: «Per quel che mi riguarda non ho mai preso parte a scavi direttamente a Rimini, nonostante questo le mie esperienze rimangono comunque nel territorio emiliano-romagnolo: un villaggio dell’età del bronzo a Solarolo in provincia di Ravenna, un villaggio dell’età del ferro a Bologna quartiere Navile, due città romane abbandonate a Ozzano nell’Emilia e Ostra Vetere ad Ancona e, poi, le fornaci romane a Galeata in provincia di Forlì- Cesena».

Leoni: «Grazie a varie collaborazioni ho potuto partecipare a numerose ricerche archeologiche di vario tipo: ho fatto le prime esperienze sul sito della città romana abbandonata di Claterna, vicino ad Ozzano nell’Emilia, dove ha lavorato anche Michele Vescio, poi ho scavato nel comune di Forni di Sopra in Friuli Venezia Giulia, in particolare nella necropoli longobarda di Andrazza e nel castrum tardoantico di Cuol di Ciastiel. Mi sono avvicinato in seguito all’archeologia dell’architettura, con lo studio degli alzati murari dei ricetti medievali di Candelo e Magnano, nei dintorni di Biella, dove in seguito ho anche fatto attività di scavo archeologico. Più recentemente ho preso parte ad una campagna di scavo a Jesolo, insediamento palustre tardoromano, e alle ricerche archeologiche effettuate in piazza Liberazione a Nonantola. A Rimini non ho mai lavorato continuativamente, ma grazie ai contatti con la Soprintendenza e con gli archeologi impegnati sul campo ho cercato di tenermi sempre aggiornato sulle nuove scoperte».

Mosaico rinvenuto nel sito della scomparsa città romana di Claterna presso Ozzano Emilia

Esiste una campagna di scavo che non dimenticherete mai?

Campedelli: «Uno scavo indimenticabile per me è stato alle pendici del Palatino a Roma con Clementina Panella, dove sono state ritrovate le insegne imperiali di Massenzio oggi esposte al Museo Nazionale Romano: tanta fatica, ma anche tante emozioni e bei ricordi che conservo con affetto».

Vescio: «Personalmente una campagna di scavo che non dimenticherò mai è quella di Ostra Vetere ad Ancona. Indimenticabile non solo perché sotto di noi stava venendo fuori un’intera città abbandonata. C’è un momento particolare che ricordo con assoluto piacere: mi trovavo a scavare un piccolo tempio rotondo e a un certo punto saltò fuori un’umilissima bambolina di terracotta, evidentemente lasciata lì come ex voto a qualche divinità. Era di fattura piuttosto rozza, ma posso assicurare che è stata un’emozione grandissima immaginare una bambina di tanto tempo fa che portava in quel tempio quell’oggetto a lei tanto caro o forse una donna ormai non più giovanissima che lasciava quel suo ricordo d’infanzia per un motivo che non possiamo conoscere».

Scavi a Ostra Vetere presso Senigallia (AN)

Leoni: «Ricordo due campagne di scavo con grande affetto: quella di Forni di Sopra, dove sono tornato per due estati consecutive, e quella di Jesolo. Più che per i reperti rinvenuti, peraltro molto interessanti, sono rimasto legato ai tanti colleghi con i quali per mesi ho condiviso le fatiche del lavoro quotidiano, professionisti esemplari e persone di grande umanità, con alcune delle quali ho stretto bellissime amicizie».

Vescio, lei fa parte, insieme agli due suoi colleghi dell’associazione Kantharos che si occupa di divulgare e valorizzare le bellezze storico artistiche di Rimini. Quando è nata l’associazione?

«L’associazione è nata nel gennaio del 2017 da una felice intuizione – o forse sarebbe meglio dire un fortunato esperimento – mia, che attualmente sono il Presidente e del Vicepresidente Nicola Leoni, a cui si sono subito aggregati gli amici e colleghi Matteo Moretti e Andrea Montanari.Io e Nicola ci trovavamo, tra il 2015 e il 2016, a prestare Servizio Civile rispettivamente al museo di Cattolica e a quello di Rimini; nel corso di quell’anno, soprattutto in seguito a una lezione sull’associazionismo tenuta dal direttore di Volontarimini Maurizio Maggioni, ci siamo accorti che ancora mancava nel nostro territorio un’associazione che si occupasse di valorizzazione e divulgazione del Patrimonio Culturale a tutto tondo. L’Associazione poteva costituire per noi la via attraverso cui reinventarci come professionisti e un modo per rendere partecipe ancora di più la cittadinanza della vita culturale. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che i siti archeologici, i monumenti, i musei e tutti i Beni Culturali in genere sono in primo luogo Beni Pubblici e cioè appartengono alla cittadinanza. In quanto professionisti, è un nostro preciso dovere farli conoscere e dar loro valore in modo che attraverso questi Beni possa aumentare anche il senso di benessere e la qualità della vita percepiti dal cittadino stesso. La nostra scommessa è impegnativa: rendere tutti partecipi della vita culturale della città e farlo scendendo sulla strada e usando un linguaggio spesso informale. Il tutto mantenendo alto il nostro valore professionale, anzi cercando di far capire ancora quale sia il nostro ruolo strategico all’interno della società. E infatti stiamo raccogliendo i frutti dei nostri sforzi: se all’inizio eravamo in quattro e il salotto di casa ci bastava per riunirci, oggi lo staff organizzativo è composto da una decina di persone, tra cui si possono annoverare anche restauratori, storici dell’arte, antropologi e un video-maker, e non sappiamo quasi più dove infilarci. A questi poi si aggiungono i quasi 150 soci che seguono da vicino le nostre iniziative».

Visita guidata nel centro di Rimini organizzata dall’associazione Kantharos

Leoni, veniamo alla domus del Chirurgo di Rimini, quanto è importante questa scoperta in archeologia?

«La domus del Chirurgo costituisce una scoperta archeologica straordinaria in tutto il panorama dell’Italia Settentrionale e del mondo romano in genere. Unico è il corredo chirurgico ritrovato: circa 150 strumenti e unico per la quantità di informazioni che ci sono pervenute grazie all’archeologia sull’ultimo proprietario della domus prima che i barbari Alamanni la distruggessero intorno al 260 d.C., il Chirurgo appunto. Ne conosciamo il nome: Eutyches, graffito su una parete della stanza nella quale probabilmente ricoverava per brevi periodi i suoi pazienti; conosciamo la sua origine orientale grazie ad alcune iscrizioni in greco, ritrovate in primo luogo sui vasetti in ceramica per i medicinali; possiamo apprendere che era seguace del culto, anch’esso orientale, di Giove Dolicheno e possiamo sapere con certezza che seguiva la filosofia di Epicuro. Inoltre, si può anche ipotizzare che la sua attività come medico sia avvenuta principalmente sui campi di battaglia, per via del suo kit chirurgico molto specialistico; con qualche cautela in più possiamo pensare che avesse anche degli aiutanti, visto che sui contenitori l’indicazione del medicinale era scritta sia in greco che latino, e così via. Infine, se guardiamo allo scavo nel suo complesso, possiamo vedere uno spaccato di vita urbana completo che va dal I secolo a.C. fino all’ultimo conflitto mondiale, quando nell’area si predispose un rifugio antiaereo».

Avete gestito e organizzato diverse visite alla Domus, quante persone l’hanno visitata in questi anni?

«La domus esercita un fascino assoluto, tanto da attirare centinaia di migliaia di persone nei dieci anni di apertura. Solo noi, come Associazione, nei vari eventi che abbiamo organizzato e che hanno interessato il sito, vi abbiamo fatto entrare oltre 500 visitatori.
Ma questo è soltanto il fiore all’occhiello di tutta una serie di ritrovamenti romani, alcuni dei quali sconosciuti e in particolari occasioni visitabili come la domus della Prefettura o quella della Camera di Commercio, gli scavi di palazzo Agolanti-Pedrocca, altri invece ottimamente rappresentati dalla ricchissima collezione di reperti del Museo della Città».

Uno dei mosaici della Domus del Chirurgo di Rimini

Campedelli, a Rimini e nella nostra provincia ci sono ancora tanti luoghi e reperti dell’epoca romana e non solo che non sono ancora stati rinvenuti?

«Certo, come in ogni territorio ricchissimo di storia come il nostro. Grazie alla legge sull’archeologia preventiva è oggi possibile indagarli con attenzione, ogni volta che si fa uno scavo, per qualsiasi motivo: mettere in posa fognature o tubi, costruire le fondamenta di una casa o di un supermercato. Queste sono opportunità importanti per rivelare i segreti ancora nascosti sotto terra e, laddove possibile, comunicarli e restituire ai cittadini la conoscenza di una parte della loro storia collettiva e talvolta personale, un particolare storico della loro città o anche uno spazio culturale riqualificato e valorizzato».

State lavorando a qualche progetto come associazione in questo momento?

«I progetti su cui stiamo lavorando sono molti. Domenica siamo partiti per ‘Storie d’Estate’, un ciclo di visite guidate, che già l’anno scorso hanno avuto un ampio successo di pubblico, che si propongono di fare conoscere e scoprire Rimini in tutti i suoi aspetti, sia storici che artistici, sia antichi che moderni. A queste visite si aggiungono anche tre serate dedicate ai bambini e ragazzi, in cui si cercherà di avvicinare anche le generazioni più giovani alla storia della città attraverso il gioco e il divertimento leggero. Inoltre andranno in scena altri eventi dedicate ai turisti e a tutti quelli che si affacciano alle vicende riminesi per la prima volta.
Ma non basta: abbiamo confermato la nostra presenza a due interessanti festival che si terranno in città, come ‘Le città visibili’, una rassegna teatrale che fino all’anno scorso aveva luogo presso palazzo Lettimi ma che da quest’anno cambierà sede, tra luglio e agosto e ‘It.a.cà’, festival del turismo responsabile a settembre.
Infine, stiamo lavorando sulla realizzazione di un cortometraggio incentrato proprio sulla figura del Chirurgo, di cui speriamo di far partire entro breve una campagna di crowdfunding. Stiamo poi già preparando le prime idee per quella autunnale e invernale, che siamo certi sarà altrettanto densa».

Nicola Luccarelli

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