Cerca
Home > Politica > Biagini sui Referendum: “Voto No per non ridurre il ruolo della magistratura”

Biagini sui Referendum: “Voto No per non ridurre il ruolo della magistratura”

Domenica 12 Giugno andrò a votare e per le ragioni che cercherò di esporre barrerò 5 volte il simbolo del NO.

Non credo assolutamente allo spirito costruttivo, alle cosiddette “buone intenzioni”, di cui è “lastricata la strada per l’ inferno” dice il proverbio, dei promotori che in sintesi con l’auspicato buon esito referendario si propongono di “migliorare” la condizione della giustizia in Italia e di “promuovere” un approccio più garantista in generale su alcune delicate tematiche.
Ritengo invece che lo scopo ultimo palese, almeno sotteso ai quesiti più importanti, sia quello o di ridimensionare il ruolo della magistratura nel controllo dell’azione del potere politico, o quello di lasciare le porte aperte per accedere (o per permanere) a cariche elettive a chi non sia in grado di adempierle “con disciplina ed onore” (art. 54 Cost.) per aver commesso gravi condotte delittuose.

Anche se non si dovesse raggiungere il “quorum”, come è probabile che sia, ritengo assolutamente importante e qualificante politicamente che dalle urne possano emergere un numero consistente di NO affinché possa arrivare un segnale politico tangibile “ad opponendum”.

Dei cinque quesiti referendari, tre rivestono un’importanza fondamentale che va oltre al ristretto contesto processuale penale e/o organizzativo dell’ordinamento giudiziario in generale in quanto, in caso di abrogazione delle norme sottoposte la vaglio degli elettori, gli effetti incideranno anche nella sfera politica e istituzionale del nostro sistema relazionale tra cittadini e organi di governo.
Parlo di quelli sulla “separazione delle funzioni giudicanti e requirenti”, sul “restringimento della possibilità di richiedere e concedere le misure cautelari” e quello dell’abrogazione della legge Severino sulla “incandidabilità-sospensione-decadenza” in materia di cariche elettive.

Gli altri due, “valutazione dei magistrati nei distretti giudiziari” e “numero di firme necessarie” per avanzare candidature per partecipare alle elezioni dei componenti togati del CSM, sono per lo più materia per gli addetti ai lavori.
Per far capire come via sia una logica, subdola, perversa, divisiva ma ben definita e pensata da parte dei promotori è bene ricordare che inizialmente i referendum sulla “giustizia” erano sei in quanto era previsto anche quello sulla “responsabilità civile dei magistrati” che si proponeva di cancellare “il passaggio intermedio dell’ azione civile intentata nei confronti dello Stato per introdurre quella diretta nei confronti del magistrato che nell’ esercizio delle sue funzioni fosse chiamato alle sue responsabilità per dolo, diniego di giustizia o colpa grave”. In buona sostanza esporre direttamente il magistrato a continue e dirette azioni civili risarcitorie, paralizzarne la funzione e la serenità di giudizio. La Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibile il quesito per il suo carattere manipolativo e creativo, non ammesso dalla costante giurisprudenza costituzionale; esso, infatti, attraverso l’abrogazione parziale della legislazione vigente, avrebbe introdotto una disciplina giuridica nuova, non voluta dal legislatore, e perciò frutto di una manipolazione non consentita.
Con il pretesto di presentare alla pubblica opinione l’ attività svolta dalla magistratura come se fosse una componente eversiva della società e approfittando del livello minimo di credibilità e di prestigio (dato inconfutabile e meritato) che in questi ultimi tempi ha oggettivamente raggiunto al cospetto della pubblica opinione il potere giudiziario, la parte più politicizzata in seno ai promotori referendari, a cui fa sponda un nucleo importante e trasversale della politica in generale, tende palesemente a relegare in un angolo mesto, subalterno, marginale il ruolo di questo fondamentale potere dello Stato in modo che “disturbi il meno possibile il manovratore del Palazzo” intento a perseguire i propri interessi non sempre puliti e limpidi. La vicenda dell’ “Hotel Champagne” e dei compagni di merende di Lotti, Palamare & C. potrebbe risultare una sfaccettatura innocua del problema, al cospetto dei pericoli insiti ad una eventuale vittoria del Sì, per esempio al quesito n. 3 sulla separazione delle “funzioni” tra magistrati giudicanti e requirenti che prelude, nelle intenzioni dei promotori, ad una futura separazione netta delle “carriere”. Riemergono in modo inquietante i disegni espliciti, quelli sì eversivi, riscontrati in un passato non poi così lontano, di quei contropoteri dello Stato che avevano come scopo principale di mettere il bavaglio ai magistrati e la sordina alla stampa quando si trattava di indagare i “colletti bianchi”, i “politici corrotti” o “gli abusi perpetrati” delle varie componenti del potere costituito. Ci tornerò a breve.

Quesito n. 3 Scheda Gialla. Separazione delle funzioni di giudici e pubblici ministeri.
Partiamo proprio da quest’ ultimo quesito, quello che ritengo il più impattante dal punto di vista di “politica giudiziaria” in generale e cioè da quello che di fatto, se approvato, preluderebbe come dicevo alla futura separazione delle “carriere” tra p.m. e giudici, leitmotiv che ricorre da più di cinquant’ anni nell’ agenda politica di una parte consistente della politica italiana. Guarda caso tale intendimento era contenuto, chissà perché, anche nel documento chiamato “Piano di rinascita democratica” di tal Licio Gelli ritrovato durante una perquisizione, nel marzo del 1981, nella sua villa di Castiglion Fibocchi. In buona sostanza la P2 si proponeva fra gli obiettivi primari quello di “separare le carriere requirenti e giudicanti” oltre ad auspicare un CSM “responsabile verso il Parlamento” e il Guardasigilli “responsabile anch’esso verso il

Parlamento sull’ operato dei P.M.“. Ergo volontà esplicita di condizionare l’attività delle Procure da parte della politica oggi in parte attualizzata dalla riforma Cartabia in quella sezione in cui si prevede che il Parlamento detti ai procuratori “i criteri generali di priorità nell’ esercizio dell’azione penale”. Norma di indirizzo, va bene, ma deriva potenziale pericolosissima per un paese come il nostro dove non si può certo dire che regni la cultura della legalità, soprattutto in determinati ambiti strategici del potere.

Ma torniamo al quesito: esso chiede che venga eliminata completamente la possibilità per i magistrati di cambiare funzione da giudice a pubblico ministero e viceversa, imponendo quindi di dover scegliere in maniera definitiva a inizio carriera se diventare giudice oppure pubblico ministero. Vediamo però quale sia la situazione attuale in quanto potrebbero esserci delle sorprese rispetto a come viene “venduta al popolo”. Attualmente il passaggio tra i due ruoli è limitato a un massimo di quattro volte con alcune regole (tipo il divieto di mutamento di funzioni all’ interno della stessa regione). Peraltro, esaminando i dati ufficiali relativi ai cambi di funzioni nel triennio giugno 2016–giugno 2019, si può rilevare che sono intervenuti solo 80 trasferimenti da PM a Giudici (media annua di 26,66 unità su 2.770 PM in servizio) e 41 da Giudici a PM (con media annua di 13,66 unità su 6.754 giudici in servizio). Già oggi nei fatti c’è una separazione delle funzioni. La pretesa trasmigrazione continua che mediaticamente si vuol maliziosamente rappresentare e “che inquinerebbe professionalmente e culturalmente la magistratura giudicante e che la porterebbe a rimanere appiattita alle tesi dei PM”, a detta dei sostenitori del SI’, è un dato totalmente fuorviante. Questa teoria si fonda più su un indimostrato sospetto che su argomenti tecnici oggettivi dimostrati dati alla mano. Bisognerebbe poi andare a veder quante volte i giudici nelle varie fasi processuali respingano le (e quindi non si “appiattiscono” alle) richieste e alle tesi dei PM (assoluzioni su richieste di condanna e viceversa; misure cautelari richieste e non concesse; determinazione del quantum di pena superiore a quello richiesto dal p.m.).

Come fuorviante è l’affermazione che “la separazione delle carriere” allineerebbe l’ Italia agli altri Stati a democrazia avanzata. Al di là delle diverse tradizioni, giuridiche storiche e culturali di ciascun paese, ci si rende conto che sia pure con vari requisiti l’interscambiabilità dei ruoli è possibile dovunque (in Austria, in Belgio, in Svizzera, in Olanda, in Germania, in Francia etc.), tranne che in Spagna.
In più la comunità internazionale, con la raccomandazione del 2000 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sul ”Ruolo del pubblico ministero nell’ordinamento penale” (in cui si auspicano passerelle tra funzioni di Giudice e PM per meglio garantire i cittadini) e con un parere del 2014 del Consiglio consultivo dei Procuratori europei, mostra di viaggiare proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni.

È giusto pertanto ribadire che l’unicità delle due carriere è necessaria anche per difendere e rafforzare un’omogenea “cultura giurisdizionale” tra p.m. e giudici e l’esperienza, nella duplice veste giudicante e requirente, ha contraddistinto molti valorosi magistrati morti ammazzati dalla mafia perché ne avevano individuati i meccanismi e le contiguità con il potere politico: Falcone, Borsellino, Livatino, Saetta, sono stati sia giudici che p.m.. L’avvocato Franco Coppi decano dei penalisti italiani ma controcorrente su questo tema rispetto ai suoi colleghi su questo tema afferma che : «… vogliamo davvero che qualcuno passi la vita ad accusare?… Lo scambio di esperienze aiuta a interpretare il singolo ruolo». Perché allora con cadenza periodica la separazione delle carriere è diventata il cavallo di battaglia di una certa parte politica? Perché si vuole creare un corpo di magistrati autonomi, trasformare i p.m. in una sorta di “avvocati longa manus giudiziaria di quel potere politico-esecutivo di turno” che addirittura detterà i criteri di priorità nell’ esercizio dell’ azione penale e sganciarli dalla cultura delle garanzie giurisdizionali ? Quanti processi di un certo tipo si sarebbero potuti celebrare in Italia con un p.m. attratto nell’ orbita dell’ esecutivo? Processi che hanno pesantemente coinvolto apparati di governo. Pensiamo ai depistaggi in occasioni delle stragi di Stato, mafia e terrorismo: Ustica, Bologna, Milano, Brescia, via D’Amelio, Capaci. Per continuare: la trattativa Stato-Mafia o sui rapporti collusivi tra alti funzionari dello Stato e dei servizi. Le inchieste delicate: Abu Omar, Alma Shalabayeva, le violenze al carcere di Santa Maria Capua a Vetere, il G8 di Genova. Un p.m. non autonomo dal potere esecutivo avrebbe trovato difficoltà insormontabili a portare a termine tali delicatissime inchieste contro “il potere”.

Quesito n. 2. Scheda arancione. Limitazione delle misure cautelari.
Oggi il codice di procedura penale prevede all’art. 274 che le misure cautelari possano essere adottate in presenza gravi indizi di colpevolezza e di tre esigenze cautelari: pericolo di inquinamento della prova, pericolo di fuga e pericolo di reiterazione di gravi delitti: oppure, ed il caso che ricorre più frequentemente, il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie di quello per cui si procede. Il quesito intende abrogare la possibilità di applicare una misura cautelare (attenzione, che non sia necessariamente la custodia in carcere come si vuol far credere, ma ad esempio “i domiciliari”, “l’ obbligo di firma”, il divieto di avvicinamento, ecc..) nei confronti dell’ indagato raggiunto da gravi indizi di colpevolezza, quando il giudice ravvisi esclusivamente il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie di quello per cui si procede. Per capire, se non sarà concretamente ravvisabile il rischio di inquinamento della prova (perché, ad esempio è stato arrestato in flagranza e non può più inquinare le prove) e se non sarà ravvisabile per il giudice un concreto pericolo di fuga dell’ indagato (non c’ è possibilità che possa fuggire all’ estero non avendo il passaporto o perché è notorio che è sempre rimasto nel luogo in cui delinque e da lì non si è mai mosso, ecc…) le misure cautelari diverranno inapplicabili al di fuori della ristretta cerchia dei delitti di criminalità organizzata, di eversione o commessi con l’ uso della violenza o delle armi. In buona sostanza persone che sulla base dello studio dei precedenti e della condotta di vita si ritiene possano tornare immediatamente a delinquere, se passasse il referendum, non potranno essere sottoposto a misura cautelare.

Pensate agli “autori seriali” (quindi a soggetti inclini a delinquere, a commettere delitti della stessa specie) di delitti contro la pubblica amministrazione, contro l’ economia, contro il patrimonio, contro la libertà personale e sessuale. Si potrebbe poi addirittura determinare nel giro di poco tempo, non appena di registrerà una recrudescenza di tali gravi e seriali delitti una situazione purtroppo già vista. I pubblici ministeri e i giudici dovranno prepararsi ad affrontare ondate di malcontento, incomprensibili alla pubblica opinione, in quanto saranno obbligati a scarcerare, soggetti arrestati in flagranza per reati che destano grave allarme sociale (ad esempio estorsione, stalking ). Il giudice non potrebbe applicare, per esempio, la misura della custodia cautelare o degli arresti domiciliari, o altre misure, quando non dimostri il pericolo di inquinamento della prova o quello di fuga dell’indagato, anche se ritenesse concreto il pericolo che ritorni a delinquere (si pensi allo stalker).

A proposito di quest’ ultimo tema referendario risulta grottesca (o forse sarebbe meglio affermare preoccupante cista la carica che ricopre) la posizione espressa dal presidente del Veneto, il leghista Zaia, chiamato a commentare i fatti di molestia subiti da alcune ragazzine sul treno Verona-Milano di qualche giorno fa. Egli ha affermato: <<” Questo è il Paese dell’ impunità e i responsabili di quella follia lo sanno…….Sarà tutto derubricato e se ci saranno condanne, non saranno scontate. Ma la colpa non è dei magistrati ma di leggi che sono da cambiare” Per esempio? “ Il carcere in altri ordinamenti c’ è la notte in carcere …che poi diventa una settimana e via via aggravando. Se invece a chi fa robe del genere non succede niente, se l’ impunità è garantita “. Siamo alla farsa. Da una parte un esponente di primo piano della Lega che, abbaiando alla luna, chiede il carcere preventivo per determinati gravi reati accusando “le leggi che sono da cambiare”; dall’ altra il suo partito di riferimento, la Lega, che si fa promotore di un referendum abrogativo che, se approvato, condurrà nella direzione diametralmente opposta rispetto ai desiderata di Zaia, in quanto abolisce l’ unico strumento di rilievo previsto da una legge in vigore per “mettere la notte in carcere” gli autori di quei delitti contro cui si scaglia Zaia. Presidente Zaia, voterai SI’, NO, non ritirerai la scheda. ? Auguri. SIAMO ALLE COMICHE.

Quesito n. 1 Scheda Rossa. Abrogazione Legge Severino.
La “legge Severino“ incide sul rapporto pendenza del processo penale e accesso o permanenza in carica di amministratori della cosa pubblica, e cioè l’ eterno problema che incrocia la responsabilità politica con quella penale. Si tratta di una normativa estremamente complessa che regola le ipotesi di incandidabilità-decadenza-sospensione a tutte le cariche elettive “politico-amministrative” nei confronti di persone condannate per reati gravi o gravissimi con sentenze definitive e, per quanto riguarda la sospensione degli amministratori locali, anche se condannati con sentenza non definitiva. Innanzitutto non è vero che l’abrogazione riguardi solo la norma relativa agli impedimenti derivanti agli amministratori locali da una sentenza non definitiva. Se fosse stato così avrei avuto dei dubbi anch’ io ma il quesito chiede di eliminare tutto l’impianto della “Severino”, che pur con i limiti insiti nella previsione degli automatismi, rappresentava nel momento e nel clima in cui è nata un segnale di attenzione della politica all’ “onorabilità e credibilità ” dei suoi rappresenti, compromesse o appannate da condanne giudiziarie. Oggi con il referendum che chiede di abrogare, ripeto, l’intero corpo della Severino, si vuole tornare indietro per eludere l’ attuazione di quel principio affermato dall’ art. 6 della Convenzione dell’ Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione e ribadito dalla Convenzione penale sulla Corruzione di Strasburgo, che aveva appunto ispirato la Severino nata per ottemperare al principio affermato dall’ articolo 54 Cost per il quale tutti coloro che ricoprono cariche pubbliche le devono adempiere con “discipline e onore”.

Quesito n. 4 Scheda Grigia. Equa valutazione dei magistrati.
Quesito importante ma di cui si parla poco in quanto molto da “addetti ai lavori”. Esse verte sulla modalità di partecipazione dei componenti ”laici” (avvocati e professori universitari) ai lavori dei consigli giudiziari distrettuali (per intenderci, tanti piccoli CSM dislocati nelle sedi delle Corti di Appello). I promotori del referendum intendono rendere questa partecipazione più incisiva in tutto equiparabile a quella dei membri togati. In particolare chiedono di estenderla anche alla “formulazione del parere sulla professionalità di giudici e p.m.” che ad oggi è riservata solo ai membri togati del Consiglio Giudiziario. Il fine sarebbe quello di debellare un malcostume generalizzato di casta “sulla autoesaltazione tra colleghi” che si traduce in valutazioni tutte uguali che poi metterebbero in difficoltà lo stesso CSM in sede di nomine; quindi il fine lo ritengo propositivo. È la modalità che non mi convince. Non mi piace l’avvocato che recita due parti in una commedia: la mattina che difende un imputato di omicidio, strage, corruzione, ecc.. “litigando” anche ferocemente con il p.m. in aula e il pomeriggio, in sede di Consiglio Giudiziario, che contribuisce alla redazione del parere sulla valutazione professionale del magistrato, sua “controparte” nel processo. Oppure l’avvocato che la mattina aspetta in aula un verdetto mente il giorno prima ha contribuito in sede di Consiglio Giudiziario a valutare la professionalità magari del presidente della corte giudicante. Chi dubita che il giudizio possa essere “inquinato” da possibili o sospettabili ostilità o al contrario da indebite compiacenze, mi convince. Pieno e doveroso diritto di tribuna agli avvocati in sede di Consiglio Giudiziario, soprattutto per il contributo di conoscenze che potranno fornire, ma continuiamo pure a lasciarli fuori dal processo di formulazione dei pareri sulla valutazione professionale dei giudici per evitare che possa nascere un clima di ostilità o di sospetto.

Quesito n. 5 Scheda Verde. Candidature al CSM.
Il più breve da commentare in quanto il più inutile. Esso con la proposta di abolire la norma che attualmente prevede per il magistrato che aspira a far parte del CSM che la propria candidatura sia accompagnata dalla raccolta di firme di almeno 25 colleghi, ritiene di compiere un passaggio decisivo per scongiurare il pericolo che “il correntismo” continui ad imperare all’ interno del CSM. In buona sostanza i promotori ritengono che solo con candidature individuali e libere, prive di ogni preventivo sostegno, si inferisca un colpo mortale “al correntismo” pervasivo che ha infettato l’organo di autogoverno dei magistrati. Si vede che non hanno letto, o se l’ hanno letto non l’ hanno capito, “Il Sistema”. Ne consiglio vivamente la lettura.

Roberto Biagini.

Ultimi Articoli

Scroll Up