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Biagini, presidente CO.NA.MA.L: “Proroghe spiagge inapplicabili, raccogliere la sfida dell’Europa e procedere con le gare”

L’avvocato Roberto Biagini è Presidente del “Coordinamento Nazionale Mare Libero (CO.NA.MA.L.). Un gruppo nato da poco e che si sta dando molto da fare, anche in tempo di quarantena. A Biagini abbiamo chiesto perché è nato il Coordinamento e cosa si propone.

Siete estremamente attivi sui “social” e non solo: pagina Facebook, conferenze da “remoto” con esponenti politici di livello nazionale, incontri con i Presidenti di Commissioni Parlamentari, conferenze stampa alla Camera dei Deputati, interlocuzioni dirette con Parlamentari dei partiti di maggioranza. Insomma un inizio con il botto.

«Un’esperienza formativa notevole da molti punti di vista: umani, politici, professionali. Ci siamo ritrovati da esperienze territoriali diverse (Romagna, Cilento, area metropolitana di Napoli, Versilia, Litorale Romano) con un unico obiettivo: quello di sensibilizzare l’opinione pubblica nel riappropriarsi di determinati beni di tutti (e di una cultura) di cui inesorabilmente venivano (e veniamo) lentamente privati: il demanio marittimo e i pubblici usi del mare. Insieme al patrimonio storico-artistico e quello inerente all’ intero eco-sistema collinare e montagnoso, la tutela delle coste italiane dovrebbe essere il pregio, l’orgoglio della nostra nazione ed invece è lasciato totalmente in balia della dialettica “Politica & Lobbies”, che oltre a essere una significativa “ragione sociale” di un sodalizio creato da tempo direi che renda molto bene l’idea di una partnership ben riuscita, direi inossidabile».

Quando è nata l’associazione? Come vi siete conosciuti, contattati, incontrati?

«Il web è stato fondamentale per i primi approcci. Alcuni associati erano già iscritti ed attivi sul campo per una serie problematiche locali salite anche alla ribalta nazionale (una per tutte il “Lungomuro” di Ostia e gli impedimenti, gli ostacoli materiali per accedere in battigia nel Cilento, nell’area metropolitana di Napoli ed in Versilia). Poi ci ha messo del suo anche Chiamamicitta.it per la sensibilità sul tema e gli articoli pubblicati».

Siamo quindi suoi complici nel “reato”, una sorta di concorso esterno …in informazione demaniale marittima, giusto?

«Certo, una chiamata in correità del tutto pertinente. A parte la battuta, sono stato contattato dai promotori dei comitati “ostiensi” che hanno letto gli articoli pubblicati a commento delle varie sentenze che uscivano in materia e anche delle “digressioni” di casa nostra sul “Parco del Mare”, “Triangolone”, IMU sugli stabilimenti balneari, Pertinenze demaniali”, Incameramenti ecc…Da li al giorno della “Leopolda” il passo è stato breve».

La “Leopolda”? Cosa c‘entra la “convention” dei renziani? Non mi dica che ha saltato il fosso anche lei? Sarebbe uno scoop….

«No, no…. conoscete bene la mia storia politica …Renzi e il PD li ho lasciati in tempi non sospetti, post referendum costituzionale 2016. Abbiamo solo scelto Firenze come luogo per costituire l’associazione. Destino ha voluto che la domenica dell’“adunanza” coincidesse con la giornata dell’ultima Leopolda. La cosa buffa è che scendendo dal treno a Santa Maria Novella ho incontrato alcuni ex esponenti del PD provinciale riminese con i quali ci siamo incrociati gli sguardi ma li ho subito tolti dall’imbarazzo: ” Non sono qui per la Leopolda, tranquilli”».

 Quindi poi avete iniziato l’attività associativa con lei presidente.

«Sì, sono entrato cardinale e sono uscito… papa. A parte gli scherzi, hanno chiesto la mia disponibilità e pro-tempore ho accettato volentieri. Ad oggi rappresentiamo Lombardia, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Calabria. Dopo il convegno sul web di lunedì 11 maggio ci hanno contattato persone dalla Puglia, Marche, Abruzzo, Sicilia. Siamo molto contenti dell’impatto avuto anche come effetto domino in quanto esponenti di associazioni ambientaliste di valenza nazionale e altre figure apicali di associazioni più marcatamente locali, ma aventi i nostri stessi scopi statuari, sono presenti nel nostro Direttivo e nella nostra associazione. Anche a Rimini ci stiamo allargando».

Veniamo alla vostra attività: diffide, denunce in Procura, Bolkestein, Corte di Giustizia Ue, Consiglio di Stato, Tar, tutela dei beni comuni, insomma del materiale ce n’è e tanto.

«Sì, il materiale è copioso. Come tanta è la confusione volutamente creata sull’argomento da chi ha interesse ad annacquare un vergognoso esempio di malagestione dei beni comuni e di mancato perseguimento dell’interesse pubblico in generale. Per anni la questione è rimasta sotto la cenere con la connivenza di tutti (a parte rare eccezione, politiche, associative e giornalistiche) e quindi non c’era bisogno di “urlare” e “mistificare” una realtà ai più sconosciuta. Poi essa è esplosa nella sua veemenza e contraddittorietà con alcune tappe fondamentali nella giurisprudenza costituzionale, ordinaria e amministrava ed europea. Da lì è poi partita l’ammiraglia della propaganda, tra politica e associazionismo balneare, volta a creare una cortina fumogena tra le pronunce giurisdizionali e l’opinione pubblica, che incominciava a chiedersi il perché delle rendite di posizione su un bene che è di tutti, dei privilegi di cui godono i concessionari in materia di pagamento dei canoni e della impossibilità per chi volesse concorrere nella gestione di accedervi».

In sintesi, quali sono i passaggi fondamentali della giurisprudenza italiana ed europea in materia?

«Innanzitutto la sentenza della Consulta n.180/2010 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge della Regione Emilia-Romagna n. 8/2009, il quale prevedeva la possibilità, per i titolari di concessioni demaniali, di chiedere la proroga della concessione, fino ad un massimo di 20 anni dalla data del rilascio, subordinatamente alla presentazione di un programma di investimenti per la valorizzazione del bene. La Corte ha dichiarato la norma costituzionalmente illegittima perché determinava “un’ingiustificata compressione dell’assetto concorrenziale del mercato della gestione del demanio marittimo, invadendo una competenza spettante allo Stato, violando il principio di parità di trattamento (detto anche “di non discriminazione”), che si ricava dagli artt. 49 e ss. del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in tema di libertà di stabilimento, favorendo i vecchi concessionari a scapito degli aspiranti nuovi”.  E’ importante anche un altro principio fondamentale espresso da quella storica sentenza e poi rimodulato dalla Corte di Giustizia della U.E. che viene poco evidenziato: non vi può mai essere un affidamento da tutelare con riguardo alla esigenza di disporre del tempo necessario all’ammortamento delle spese sostenute per ottenere la concessione, perché al momento del rilascio della medesima il concessionario già conosceva l’arco temporale sul quale poteva contare per ammortizzare gli investimenti, e su di esso ha potuto fare affidamento.  Questo argomento (norma che tutela un affidamento), dice la Corte, avrebbe un senso (quindi sarebbe legittima) solo se una norma avesse lo scopo di ripristinare la durata originaria della concessione, neutralizzando gli effetti di una precedente norma che, sempre per ipotesi, avesse arbitrariamente ridotto la durata della stessa. Nel caso all’ esame, invece, si trattava della proroga di una concessione già scaduta, e pertanto non vi è alcun affidamento da tutelare Da lì poi a cascata c’è stato lo stillicidio dell’incostituzionalità delle leggi regionali che ci “hanno provato”».

E la Corte di Giustizia dell’Unione Europa (C.G.U.E)  con quella sentenza del 14 Luglio 2016 come ha influito sulla materia?

«È stata lo spartiacque, il punto di non ritorno, quello che ha posto la parola fine (almeno in punto di diritto e non solo) all’anomalia italiana. Essa ha enucleato una sorta di vademecum di principi “non negoziabili”:  1) Proroghe generalizzate non conformi al diritto eurounitario (art. 12 Direttiva Bolkestein e art. 49,56,106 T.F.U.E.); 2) Obbligo di procedure di selezione tra i potenziali candidati volte alla massima contendibilità dei diritti di sfruttamento di un bene di tutti; 3) Concessioni limitate nel tempo e nessun vantaggio al prestatore uscente in sede di pubblica evidenza; 4) Eventuale valutazione caso per caso per eventuali ammortamenti non ancora compiuti (e solo se il titolare della concessione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria concessione e ha effettuato i propri investimenti). Questo è un principio fondamentale: l’investimento è quello, documentato, effettuato dal titolare nella vigenza del rapporto concessorio (ad esempio WI-FI, strutture eco-compatibili, bioedilizia, arredi nei ristò-bar, nuove strutture nello stabilimento balneare, ecc). In ogni caso, una volta quantificato un eventuale “affidamento” esso non dovrà certamente essere accollato all’eventuale subentrante il quale ha diritto di partecipare alla pubblica evidenza in condizioni di parità con l’uscente e dovrà essere solo il merito della proposta ad aggiudicare la concessione. Quindi molto probabilmente in singoli casi (e alcuni TAR hanno già disposto in merito), le pubbliche amministrazioni concedenti allungheranno di qualche anno la durata della concessione per poter completare l’ammortamento ma poi alla linea di partenza per le pubbliche evidenze nessun vantaggio per gli “uscenti”, tutti uguali. 5) Obbligo per tutte le pubbliche autorità degli Stati membri, quindi non solo organi giurisdizionali ma anche pubblici funzionari delle pubbliche amministrazioni, di disapplicare ai procedimenti di loro competenza, giurisdizionali ed amministrativi, le norme che prevedono proroghe generalizzate. Questo vuol dire che non esistono spazi per “atti ricognitori”, “timbri”, “estensioni” o termini analoghi che attuino in vario modo norme “inapplicabili”».

Poi cosa è successo? In pratica quali sono state le prime applicazioni della sentenza della C.G.U.E. nelle corti degli stati membri e nei procedimenti degli enti pubblici?

«Intanto è successo che la “politica” venendo meno ai suoi doveri, invece di recepire quanto indicato dalla U.E., ha cercato subito “una soluzione adattiva” all’italiana. Neanche 20 giorni dopo la pubblicazione della sentenza, l’emendamento “salvaspiagge” al decreto Enti Locali ha provato, “furbescamente” e con una norma che neanche nelle favole avrebbe potuto avere cittadinanza, a consolidare la vigenza delle concessioni in essere ritenendo di strappare dividendi politici-elettorali ai concessionari. Poi inevitabilmente alle prime occasioni, sia i giudici ordinari che amministrativi hanno bollato, con tanto di “infamia giuridica” la norma disapplicandola ai casi loro sottoposti. Era inevitabile».

E non è bastato?

«Assolutamente no: errare humanum est, perseverare autem diabolicum,,, La legge di Bilancio 2019 (governo “gialloverde”) ha ulteriormente esteso la durata delle concessioni al 31.12.2033 e, “chicca” dell’ultima ora, il Decreto Rilancio (governo “giallorosso”), ha sostanzialmente confermato la vigenza di tale estensione con la previsione dell’art. 182. Nel primo caso il Consiglio di Stato e il TAR Veneto sono già intervenuti confermando la bontà dello schema motivazionale della C.G.U.E. e bollando l’estensione come non conforme al diritto euro-unitario (Consiglio di Stato novembre 2019); nel secondo caso (TAR Veneto marzo 2020) disapplicando la proroga la 2033 al caso sottoposto alla sua cognizione. E tale sarà inesorabilmente la sorte della norma prevista all’art. 182 del Decreto Rilancio firmato ieri da Mattarella: non è possibile con un decreto legge fugare i dubbi interpretativi di una norma già considerata non applicabile per contrasto con il diritto eurounitario. Prima di essere un’illusione politica, è una aberrazione giuridica, con buona pace di Franceschini e Gnassi».

Cosa c’entrano Gnassi e Franceschini?

«Ricordate il mese scorso il proclama del Ministro Franceschini subito scimmiottato da Gnassi? “Passo indispensabile per portare chiarezza nelle concessioni, un plauso al Ministro”, ostentava il sindaco urbi et orbi. Voglio proprio vedere se l’ottimo dirigente dell’ufficio demanio del Comune di Rimini, dopo aver ricevuto diffide per la messa in pubblica evidenza delle concessioni e dopo aver subito recentemente una ispezione del MEF per la riscossione dei canoni, si fida di una norma inapplicabile (perché è suo dovere disapplicarla) e da domani rischia in proprio (non il Sindaco o Franceschini, ma lei in prima persona) apponendo il “timbro ricognitorio” al concessionario che gli mostra la ricevuta di pagamento della tassa di registro fino al 2033… Ho molti dubbi in proposito… E il danno erariale? Cosa succede in caso poi l’ente locale dovesse restituire la somma al concessionario per un affidamento a lui creato da chi ha apposto il “timbro”, nel momento in cui un tribunale della Repubblica dichiari (com’è certo) la norma del “Decreto Rilancio” inapplicabile – com’è capitato alle proroghe precedenti – e la concessione dovesse poi andare in pubblica evidenza?».

Soluzioni?

«Una sola: raccogliere la sfida dell’Europa e guardare nella direzione indicata dalla C.G.U.E. Definizione immediata di criteri di gara idonei ad assicurare efficienza e confronto concorrenziale per far emergere la “willigness to pay” (propensione al pagamento) degli operatori del mercato turistico, con il superamento del metodo tabellare per la definizione dei canoni concessori. Risolvere il problema dei “pertinenziali” e far pagare canoni equi a tutti (ricordate sempre i 300 euri annuali di un risto-bar riminese…). È finita la fase che ha consentito ai privati di internalizzare i guadagni derivanti dallo sfruttamento del bene pubblico esternalizzando tutti i costi ambientali e di sottrazione della risorsa in danno dell’ambiente e delle comunità rivierasche. È necessario riaffermare la legalità, il primato del diritto e del pubblico interesse. In tal modo l’amministrazione riuscirebbe a catturare una parte degli utili generabili dall’utilizzo del bene pubblico (quindi non solo i circa 100 milioni di euro l’anno che lo stato raccoglie dalla riscossione dei canoni a fronte di un giro miliardario di affari che sviluppa il settore) facendo gravare sul concessionario tutti i costi connessi alla sottrazione del bene all’uso comune».

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