Si può non parlare di Sanremo il giorno dopo la finale di Sanremo? Forse sì, se nella stessa settimana Rimini ha portato a casa il secondo titolo di Masterchef in pochi anni: a stretto giro dopo il santarcangiolese Valerio Braschi il cooking show più famoso d’Italia ha incoronato Francesco Aquila, originario di Altamura ma naturalizzato bellariese.
Considerato che i vincitori di Masterchef sono in tutto dieci, non è un risultato insignificante che un quinto dell’eletta schiera provenga dalla nostra provincia. Semmai può far pensare il fatto che nessuno dei due viva e/o operi a Rimini-Rimini. Aquila, per dire, ha lavorato anche a Riccione e a Milano Marittima, scavalcando d’un balzo il capoluogo e il suo hinterland. Valerione Braschi il suo ristorante lo ha aperto a Roma, mica a Borgo San Giuliano o a Marina Centro – e ha fatto bene, visto che ammannisce cose tipo il dentifricio al gusto di tagliatelle al ragù.
In patria nessuno è profeta, e nemmeno chef, a quanto pare. E Rimini sembra essere una patria più sorda di altre, in fatto di cucina. Negli ultimi anni si è ammorbidita per quanto riguarda la cucina etnica: i ristoranti cinesi e i take away indiani reggono bene, e il sushi ormai si trova anche al supermercato. C’entrerà molto anche la presenza in città di giovani curiosi e di studenti squattrinati che ricorrono volentieri ai piatti etnici, in genere più economici rispetto al menu nostrano tradizionale. Anche la crisi ci ha messo del suo, convincendo pure i boomers riluttanti a provare il riso alla cantonese e i wanton che, volendo, possono essere visti come un’insalata di riso tiepida e dei ravioli in bianco un po’ più grandi del solito.
Il riminese medio è di gusti semplici. Vuole mangiare tanto spendendo poco, e se non è sicuro di raggiungere almeno uno dei due obiettivi preferisce la cara vecchia pizza o l’ancor più cara e vecchia piada, che non deludono mai. Ora, il ristorante stellato ha una pessima fama sia sotto il profilo della quantità che sotto quello del prezzo. Si pensa subito a porzioni formato francobollo cui corrisponde un conto da cura odontoiatrica.
Uso l’impersonale, ma potrei parlare anche in prima persona, e con cognizione di causa, visto che in tempi lontani mi è capitato di mangiare (si fa per dire) in qualcuno dei templi della nouvelle cuisine insigniti di non so quanti cappelli dalla Guida dell’Espresso, e di uscirne ringraziando tutti i santi di non essere quella che alla fine aveva dovuto mettere mano al portafoglio.
Non mi entrava e non mi entra in testa che in certi ristoranti non si va per mangiare, ma per viaggiare col gusto. Lo chef non è un semplice cuoco, ma un Cristoforo Colombo che imbarca le mie papille in una crociera verso lidi lontani e inesplorati. Si badi bene: solo le papille, piccoli sensori distribuiti qua e là sulla lingua cui per godere bastano quantità lillipuziane di manicaretti geniali. Lo stomaco, organo ingordo che brontola, borbotta e pretende essere convenientemente riempito, è escluso da questo viaggio raffinato. Che se ne resti a terra a brontolare e a sognare piatti di pastasciutta, bisteccone e rustide di pesce.
Ricordate il vecchio apologo di Menenio Agrippa, l’antico romano che, paragonando il patriziato allo stomaco e la plebe alle membra che lo nutrono, riuscì a rappacificare patrizi e plebei? Forse ci vorrebbe un Menenio anche per mettere d’accordo l’arte sopraffina degli chef con le umane esigenze della pancia (e della tasca). Se sorgerà un tale eroe, verrà sicuramente da Rimini-Rimini.
Lia Celi