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“Baby”: così un riminese ha creato la serie di Netflix

“Baby”, la serie televisiva firmata dallo sceneggiatore riminese Giacomo Durzi

“Baby”, una serie televisiva di successo. Il riminese Giacomo Durzi, 42 anni, ha firmato una delle serie più famose che va in onda sulla piattaforma Netflix. Narra la vita di due adolescenti romane che finiscono per prostituirsi. Ha realizzato la sceneggiatura insieme a Durzi anche Isabella Aguilar. I due guidano un collettivo di cinque sceneggiatori chiamato Grams. Ma cerchiamo di conoscere meglio questo sceneggiatore, che tra le altre cose è anche regista, e di raccontarci come è arrivato, partendo dalla provincia, a raggiungere certi obiettivi.

Durzi, che cosa vuol dire essere uno sceneggiatore?

«Scrivere per il cinema e la tv è un mestiere che ti accompagna ogni giorno, ogni istante. È un lavoro complesso e piacevole allo stesso tempo, per cui è necessaria disciplina e organizzazione. Ti impegna sempre, senza orari né weekend finché non arrivi a scrivere la parola “Fine” nell’ultima pagina.  Non essendo quasi mai un lavoro solitario, i momenti più belli per me sono sempre quelli in cui fai riunioni di scrittura, litighi, ridi, mangi schifezze, bevi litri di caffè, scambi idee e cerchi soluzioni».

Ed essere regista, invece?

«Negli ultimi anni ho fatto esclusivamente lavori di documentario. Ho fatto dei corti solo in giovane età, e poi non mi sono più sentito determinato abbastanza per continuare. Mi sono trovato più a mio agio nella scrittura. Credo che abbia a che fare col  timore e la difficoltà nel dirigere gli attori. Quindi mi sento regista solo a metà, per necessità.  È molto diverso infatti dirigere un film o una serie rispetto a un documentario. Il lavoro di documentarista è un impegno che mi appassiona perché richiede ricerca, studio e poi nella fase di riprese un’enorme capacità di interloquire con le persone che intervisti e con le quali devi stabilire un rapporto di fiducia per raccogliere con fedeltà il loro pensiero. E infine c’è il montaggio, una sorta di seconda scrittura o riscrittura il più delle volte. È come se fosse la verifica di quello che hai concepito. Nel documentario è il momento che preferisco, il più faticoso ma anche quello più gratificante».

Secondo lei, si può essere entrambi e non litigare con se stessi?

«Direi proprio di sì, se si è capaci di tenere a bada vanità e superbia. Fare il regista significa avere a che fare con dozzine di collaboratori. Devi essere un capitano e tirar fuori il meglio da chiunque, ed essere sempre pronto a trovare soluzioni e affrontare ogni tipo di emergenze. Sono due mestieri molto diversi. Lo sceneggiatore è più un uomo di pensiero, che convive bene nell’ombra e nell’intimità della scrittura, mentre per fare il regista devi avere una gran personalità  e un carattere disposto al dialogo costante».

È stato difficile farsi largo in questo mondo?

«Sicuramente non è stato facile, ma sono stato fortunato, come si dice i questi casi, quando non sai ripercorrere con esattezza quando tutto è cominciato. Di certo mi ha aiutato tanto la scelta di trasferirmi a Roma dopo l’università a Bologna e un anno di Erasmus in Inghilterra, quando ho fatto il concorso per entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia. In quel momento ho capito che avevo fatto una scelta definitiva  e che non potevo più tornare indietro».

Venire dalla provincia, in questo caso, è penalizzante? Bisogna lavorare di più e credere più in se stessi?

«Sì, pur essendo nato a Roma, sono cresciuto dall’età di sei anni in provincia di Rimini, a Novafeltria. Non lo credo affatto penalizzante, al contrario è stata un’enorme risorsa, da molti punti di vista. Gli anni, quelli formativi e più importanti, vissuti in una provincia vivace e culturalmente ricca come la nostra, sono stati essenziali per forgiare carattere e personalità. Se vieni dalla provincia devi conquistare tutto, trovare un libro o vedersi un film, tempo fa, tutti i consumi culturali erano più difficili in provincia rispetto alla città. E quindi avevi più spinta e determinazione».

Quante serie TV o pellicole ha firmato come sceneggiatore?

«Molte da sceneggiatore. Sono ormai quindici anni che scrivo. Ho lavorato per Rai, Mediaset Sky e Netflix. Mi sono occupato e tuttora ho ruoli anche di sviluppo editoriale per le produzioni originali di Sky come story editor e creative producer».

Mi parli di quella che ha firmato per Netflix…

«È stata una sfida straordinaria e intensa e molto faticosa, soprattutto per i tempi rapidi in cui abbiamo avviato e concluso la scrittura. Siamo stati una bella writers room, io ero l’head writer, insieme a Isabella Aguilar, alla guida di un gruppo di sceneggiatori giovanissimi. È stato molto interessante trovarsi per la prima volta ad affrontare lo sviluppo di una serie con un interlocutore americano che ha prodotto serie che ho amato alla follia e che hanno rivoluzionato il mondo della serialità con House of cards, una su tutte».

Sta lavorando a qualcos’altro in questo momento?

«Sì, ho una serie di progetti in sviluppo con Sky su cui non posso anticipare molto. Invece, posso dire di essere in scrittura di una serie ispirata alle vicende del crack finanziario di Monte dei Paschi di Siena».

Nicola Luccarelli

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