Leggo e condivido sulle pagine di Chiamamicittà l’appello all’unità rivolto da Giuseppe Chicchi alle forze della sinistra in vista delle prossime elezioni europee, ma rimango sconcertato da un passo che recita: “A volte è necessario rompere perché si possa ricostruire”. Se Chicchi ha in mente l’ultima rottura consumatasi all’interno del Pd – con i “fuoriusciti” poi al 3,3% nel gradimento degli elettori e i fedelissimi al 18,7% – mi riesce difficile cogliere i segni di una ricostruzione in atto. Io vedo tante macerie e grande sconcerto. I due partiti della sinistra, sommati, hanno perso per strada l’8% dei tradizionali elettori d’area e, come insegnava un simpatico ex dirigente di area democratica, quando il dentifricio è uscito dal tubetto è difficile rimetterlo dentro. Lo slogan rompere per ricostruire era forse plausibile nel 1921, oggi proprio no.
Ma non intendo polemizzare con Giuseppe che conosco e stimo da quando frequentavamo il sindacato – scuola della CGIL. Anzi lo ringrazio per avermi dato l’opportunità di riflettere ad alta voce su questioni dirimenti per il nostro futuro di europei. Come sottolinea Chicchi, l’unità delle sinistre – per quanto l’espressione appaia obsoleta agli ultras del postmoderno – è un valore aggiunto per chi intenda garantire all’Europa un futuro democratico e contemporaneamente voglia indicare vie d’ uscita praticabili a milioni di cittadini estenuati da una crisi economica che non accenna a finire, smarriti di fronte a mutamenti sociali spinti oltre ogni immaginazione.
Può essere sufficiente un appello all’unità? Non credo, se l’istanza non viene accompagnata da puntuali e rigorose analisi sulle condizioni socio-economiche del continente europeo, sulle tendenze demografiche in atto e sui mutamenti antropologici che si profilano.
Cerchiamo di andare oltre la cortina fumogena dei vari ismi che oscurano l’orizzonte: sovranismo, populismo, neofascismo, nazionalismo, globalismo etc. e torniamo a fare i conti con i dati di fatto e non con le mitologie. Mi soffermerò su due tematiche che ritengo di grande attualità.
La prima riguarda il calo demografico della popolazione europea “bianca” che registra un tasso di fertilità attorno a 1,4 figli per coppia. Nel 1960 il valore era attestato a due figli e mezzo per coppia. Qualcuno parla di suicidio demografico. E’ una esagerazione? Non credo. Negli anni Cinquanta gli europei rappresentavano il 21% della popolazione mondiale; fra vent’anni, se non succede un miracolo, scenderanno al 7%. La percentuale della popolazione africana nel contempo è passata dall’8% al 19% di quella mondiale, mentre quella asiatica rappresenta il 60% della popolazione del pianeta.
L’eccesso di popolazione nei due ultimi continenti citati, per la legge dei vasi comunicanti, si è riversata in Europa. Ci sono già sul suolo europeo circa quaranta milioni di cittadini extra CEE (quattro volte gli abitanti dell’Ungheria) che ancora mettono al mondo figli, pagano le tasse e con le loro prestazioni contribuiscono ad accrescere il PIL dei Paesi che li ospitano. Si sobbarcano lavori pesanti e sottopagati che nessun “bianco” vuole più accettare – salvo quelli dell’Est europeo – e sono pressoché privi di diritti e visibilità politica.
L’altra tematica che propongo, assieme a quella del vistoso calo demografico, riguarda la crescita inusitata di anziani, ormai al 25% della popolazione europea complessiva, con una durata media della vita che si aggira sugli ottanta anni. In diversi paesi europei sono ormai più gli over 65 che gli under 30. Nel 2050 si prevede che i primi saranno il 35% del totale. L’Italia, è già prossima a questa percentuale. La crescita di una popolazione anziana in buona salute fino a limiti di età impensabili cinquant’anni fa, se da una parte è un segnale di benessere, dall’altra crea sofferenza alle casse degli Stati che devono assicurare a una massa crescente pensioni dignitose.
Il problema sarebbe meno preoccupante se al numero di pensionati in aumento corrispondesse un adeguato numero di lavoratori occupati, i cui contributi previdenziali potessero coprire le crescenti spese pensionistiche. Ma succede esattamente il contrario. L’innovazione tecnologica nella produzione e nei servizi sta riducendo drasticamente il numero degli occupati per cui, mentre in Europa appena vent’anni fa per ogni lavoratore in quiescenza c’erano cinque lavoratori attivi che gli garantivano la pensione, ora il rapporto è sceso a tre lavoratori per pensionato. L’Italia che occupa sempre le posizioni meno virtuose, è già arrivata al rapporto di 1 lavoratore e ½ per ogni pensionato.
In conclusione chiedo alle forze di sinistra se non ritengono che l’invecchiamento della popolazione e il declino demografico debbano essere inseriti nell’agenda politica, considerate le implicazioni evidenti con i temi dell’immigrazione, del lavoro per i giovani, del reperimento delle risorse, dell’imposizione fiscale e di uno sviluppo meno squilibrato e diseguale dell’Italia e del continente europeo.
Poi lavoro e occupazione giovanile. I pochi giovani entrano tardi – verso dopo i trent’anni – nel mondo del lavoro, con contratti precari e basse retribuzioni.
Sbalorditivo sviluppo tecnologico dovuto all’informatica e all’elettronica fa crescere i profitti ma distrugge più posti di lavoro di quanti non ne crei. Stiamo avviandoci verso un futuro in cui una quota crescente di popolazione non sarà più necessaria alla produzione. Di cosa vivrà?
Reddito garantito in altri termini trasferimento del denaro pubblico, pensioni e altre forme di assistenza. In paesi già in preda a crisi fiscale degli stati, dove trovare risorse sufficienti a mantenere eserciti di non occupati?
Tasse ai ricchi saltano i profitti di impresa e nessuno è incentivato a fare l’imprenditore oppure trasferisce gli impianti dove minori sono le spese. le tasse sono più eque.
Antonio Mazzoni