L’anfiteatro di Rimini “è già stato integralmente scavato, recuperandone tutti i dati relativi alla conformazione planimetrica, alla tecnica costruttiva, alla datazione”. Varrebbe la pena riportarlo del tutto alla luce? “Un intervento di “liberazione” delle strutture a scopo di valorizzazione comporterebbe opere di sterro di notevole portata, che necessiterebbero comunque di una vigilanza archeologica permettendo un incremento dei dati archeologici che si può stimare come molto ridotto”. E’ quanto scrive la Soprintendenza archeologica di Ravenna in una relazione firmata il 22 marzo 2017 dal Soprintendente architetto Giorgio Cozzolino e dalla dottoressa Anna Bondini.
Nel dibattito sullo spostamento del CEIS per recuperare il monumento romano, gli archeologi ritengono insomma che lì ormai è rimasto ben poco da scoprire. Mentre “sotto il profilo della tutela, occorre osservare come la situazione delle murature esposte nell’area archeologica sia decisamente più precaria rispetto a quella dei resti sepolti (…). Perciò la prassi adottata più frequente dalle soprintendenze, nel caso di ritrovamenti di interesse archeologico è quella di reinterrare i resti, adeguatamente documentati e opportunamente protetti”. Così è stato fatto a Rimini di recente con gli scavi di piazzetta San Martino.
L’anfiteatro romano di Rimini venne costruito durante l’età imperiale (come dimostra il rinvenimento, inglobata nelle murature, di una moneta dell’imperatore Adriano databile tra il 119 e il 138 d.C.). Di forma ellittica, complessivamente misurava 117,7×88 metri, mentre l’arena, in terra battuta, aveva un’ampiezza di metri 73×44, non lontana da quella dei più grandi anfiteatri, ed era bordata da un canale per lo scolo delle acque.
Nell’Anfiteatro si svolgevano gli spettacoli dei gladiatori che richiamavano un vastissimo pubblico, almeno 12.000 spettatori (numero che superava la totalità degli abitanti all’interno delle mura).
La sua vita fu breve: forse poco più di un secolo. Già verso il 270 la parte protesa verso la riva del mare venne inglobata nelle mura costruite in tutta fretta, probabilmente dopo le incursioni dei “barbari” che avevo distrutto fra l’altro la Domus del Chirurgo. Si era fatto così a Roma stessa, inglobando l’Anfiteatro Castrense nelle Mura Aureliane. Poi la sua storia, come quella di tutti gli altri anfiteatri, venne chiusa nel 326 d.C. da Costantino con l’abolizione delle condanne ad bestias e quindi definitivamente da Onorio che nel 404 d.C. sancì la definitiva proibizione dei combattimenti gladiatori.
Come per tanti monumenti romani, nel medio evo l’anfiteatro dovette diventare una cava di pietra, materiale poco disponibile nei paraggi in quella qualità e già lavorata, ma anche di laterizi. Quel che rimase venne poco a poco ricoperto da detriti fino a formare un rilievo che il popolo chiamava Le Tane. Poco dopo il Mille sulla sommità è documentata una chiesa, S. Maria in turris muro. La città si è ristretta e quella parte resta disabitata e coltivata ad orti. Vi si installano attività produttive come molini, ma anche nauseabonde come le concerie; la Fossa Patara fornisce l’energia idraulica ma soprattutto è una fogna a cielo aperto, di cui si lamenta in continuazione il malfunzionamento a causa dei rifiuti. Alla chiesa si affianca il lazzaretto della città, tanto la zona doveva essere isolata. Nel ‘600 i frati Cappuccini vi costruiscono un loro convento.
Nel 1763 lo speziale Angelo Cavaglieri chiese “di poter aprire un muro della Città sotto la Clausura de’ Padri Cappuccini”, incaricandone il muratore Stefano Innocenti. Lo scavo, spiegava lo speziale, “non tende ad altro che a liberare la Città da un’impostura, che corre su questo Anfiteatro”: e cioè i più non credevano affatto che l’anfiteatro esistesse davvero. Ma le lamentele dei frati Cappuccini non permisero di proseguire i lavori.
Per sapere con certezza che Rimini possedeva un anfiteatro romano si è dovuto aspettare la pubblicazione da parte di Luigi Tonini dell’esito della campagna di scavi effettuata, a sue spese, nel 1843-44 assieme ad Onofrio Meluzzi e al pittore Marco Capizucchi. Rimini faceva ancora parte dello Stato Pontificio.
Fino ad allora tutti coloro che se ne erano occupati (Cesare Clementini nel Seicento, Iano Planco e Carlo Francesco Marcheselli nel Settecento, Antonio Bianchi nel 1824) avevano dato vita ad errate interpretazioni del monumento riminese di cui si era persa l’esatta memoria. Effettuati i rilievi e prelevato il materiale più interessante, Tonini fece poi interrare di nuovo le strutture scoperte, dato che non se ne poteva garantire la conservazione: lo stesso criterio suggerito dalla Soprintendenza nel suo documento.
All’inizio del ‘900 l’espansione urbanistica di Rimini giunse ad interessare la zona dell’Anfiteatro. Due decreti ministeriali, del 1913 e 1914 l’avevano sottoposta a vincoli, con il divieto di edificarvi qualunque costruzione.
Nell’estate del 1926 una campagna di scavi, finanziata dal Comune, venne realizzata da Salvatore Aurigemma, allora Soprintendente alle Antichità.
“All’inizio degli anni ’30, in concomitanza delle celebrazioni per il bimillenario augusteo – scrive la Soprintendenza – vennero intrapresi altri scavi per riportare alla luce l’intero anfiteatro. Dopo un primo splateamento dell’area nel 1932, la campagna del ’34, attuata con fondi comunali, mostrò come proseguendo l’indagine verso sud la distruzione dell’edificio risultasse sempre maggiore, tanto da non trovare in alcuni punti alcuna traccia di murature in posto”.
I bombardamenti del novembre 1943 colpirono pesantemente anche l’Anfiteatro. Nel dopoguerra l’area fu utilizzata come discarica delle macerie del centro cittadino e in quegli anni furono registrati numerosi atti di vandalismo e di furti di parti del monumento, più volte denunciati da Carlo Lucchesi, Direttore degli istituti culturali del Comune di Rimini.
Nel 1946 la parte sud e sud-est dell’area fu ceduta dal Comune in uso al CEIS, che vi impiantò alcuni prefabbricati. Nel 1953 a questi si aggiunsero alcuni edifici in muratura. “Innumerevoli sono state le sollecitazioni della Soprintendenza – ricorda il documento – in merito al trasferimento dell’intero complesso in ragione della provvisorietà della soluzione autorizzata, insieme alle richieste di pervenire ad un “costruttivo” confronto tra tutte le parti in causa”.
“Pare opportuno rilevare – continua però la Soprintendenza – che l’eliminazione delle costruzioni poste all’interno dell’area dell’anfiteatro consentirebbe certamente il ripristino delle condizioni prescritte nel decreto del 1914; ma questo non corrisponderebbe di per sé ad un miglioramento della tutela del monumento, e ancor meno ciò potrebbe essere sufficiente ad assicurarne la valorizzazione. Dal punto di vista della conoscenza che sta alla base di ogni attività di tutela si segnala come il monumento sia già stato integralmente scavato, recuperandone tutti i dati relativi alla conformazione planimetrica, alla tecnica costruttiva, alla datazione. Un intervento di “liberazione” delle strutture a scopo di valorizzazione comporterebbe opere di sterro di notevole portata, che necessiterebbero comunque di una vigilanza archeologica permettendo un incremento dei dati archeologici che si può stimare come molto ridotto”.
Il documento della Soprintendenza si conclude evidenziando che “è sul piano della valorizzazione che si rivelano le maggiori criticità, dovute, come già detto, sia alla presenza del Ceis su una porzione dell’area, sia alla generale situazione urbanistica della zona, che impediscono la piena fruizione di un monumento tanto significativo per la storia”.