A inizio anno è uscito un volume intitolato “L’Olimpo. Il racconto dei miti” (SEM, 2017) in cui la curatrice Rosita Copioli edita un testo inedito di Federico Fellini trovato fra le tantissime carte del suo archivio, oggi di proprietà del Comune di Rimini. E’ un progetto per un film mai realizzato? Forse. Comunque Sergio Zavoli scrive ancora una volta di Federico, in una lunga Introduzione. E Sergio Zavoli ha “regalato” a Chiamamicitta.it un brano di questa sua introduzione dove racconta dei rapporti di Federico con Rimini.
(…) Quel mondo, a Rimini, finì il 2 novembre del ’43: quando i rimasti a casa – Federico se n’era già andato – lo videro crollare. Qui esplode un’altra mitica presenza della terribilità: una mattina, venuto dal mare, ci colse di sorpresa un rilucente nugolo di aeroplani. In una trentina di secondi cadde sulla città una semina di bombe, alcune delle quali tolsero di mezzo anche le “case”. Non vi fecero dei morti perché, essendo festa, le ragazze stavano passeggiando con le padronesse lungo il mare. Il bombardamento travolse la vita di quelle creature come una fiumana con tutto ciò che incontra. Prese e disperse nel marasma, alcune tornarono, si confusero tra la gente, affrancate da fidanzati, mariti, figli, nipoti.
Federico, dunque, è partito. Da La mia Rimini traspare che le due città, Rimini e Roma, ignorano l’avvenimento. Un giorno gli si rimprovererà di non avere “girato” le storie de I Vitelloni tra le mura di casa. «Non volevo perdermi nel gioco dei sentimenti», si scuserà il regista. «Peggio per lui – dirà allora un riminese famoso per la sua modestia – avremmo fatto un gran film!». Non basteranno cinque Oscar per dimenticare quell’occasione perduta.
Fellini aveva con Rimini un legame fatto di precarietà, di vacanza presa in anticipo, di espiazione. La congrega degli amici continuò a estinguere l’inverno lungo il Corso, su e giù tra le due piazze, con qualche ritorno al mare la domenica mattina. Nel bar, di notte, si continuò a discutere sulla convenienza di dire tela gommata o gomma telata, attirando il solito numero di cittadini interessati ai ragionamenti, i “vitelloni” rimasero alle prese con le loro congetture, il loro pubblico, le loro malinconie, e la loro eleganza; “ellenica”, precisava Sesani, il violoncellista, colpito da un tic che gli spostava il viso da una parte, e tuttavia con delle occhiate acrobatiche riusciva a leggere lo spartito.
Mario Guaraldi, che anche rieditando La mia Rimini amò far rivivere un Federico scivolato via dalla città – si sentiva dire, di notte – col tempo volle sapere se aveva davvero pronunciato, in una mia trasmissione televisiva, l’abiura: “Devo dirti che a Rimini non torno volentieri…, è una trappola sentimentale, che mi rimprovera, mi punisce”. Una sera, a Grottaferrata – nel ristorante Il fico, di Claudio Ciocca, uno dei suoi amici sperticati – mi sembrò che Federico riascoltasse quelle parole e volesse chiarirle, spiegarle.
Fu così che cominciò a raccontare i suoi legami segreti con la città natale, la sotterranea, labirintica natura del suo voltarsi indietro, ogni tanto, per misurarsi con qualcosa che resisteva in una sorta di rovistata memoria; ammettendo di essersi voluto togliere da quel “pastrocchio” che è l’origine confusa con la sentimentalità: i borghi, le stradine, il garbino, i gabbiani, le lanugini, la nebbia, il Grand Hotel, la sirena del faro, lamentosa, inquieta; insomma il tiepido brivido che ritornava, ogni tanto, nell’esilio. Quella sera aveva in animo di tentare una riconciliazione, d’altronde mai del tutto esclusa e ancor meno ripudiata: infatti, al contrario di quanto gli scettici continuavano a credere, aveva un’idea tenera, placentale del suo simbolico “borgo”. Una volta confessò: “Tutto è come velato da qualcosa che non è cresciuto con me, né testimone né complice. Un po’ spaesato, questo sì, ma cerco di capire perché è rimasta la curiosità, la simpatia, e una lontana, vaga allegria”. (…).
Sergio Zavoli