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Alla ricerca del villaggio romano perduto sulla riva del Marecchia – FOTO

Trecento persone prenotate, altre decine e decine sopraggiunte senza preavviso. Famiglie, bambini, anziani e giovani: alla fine erano quasi cinquecento. Non per l’arrivo di una rockstar, ma per recarsi in uno sterro accanto allo stabilimento SCM di Villa Verucchio e mettersi pazientemente in fila fra cumuli di macerie. In attesa di cosa? Delle visite guidate agli scavi archeologici che Soprintendenza di Ravenna e società adArte stanno effettuando dal 1 agosto; visite organizzate dai Comuni di Rimini e Verucchio – ci troviamo esattamente sul confine – oltre che naturalmente dalla proprietà SCM, che vi stava realizzando un nuovo capannone.

Tutti in fila in attesa del turno per la visita guidata

Non che sia stata trovata una nuova Pompei. Eppure quello che è emerso ha una sua importanza. E’ la prima volta che si può vedere a occhio nudo un tratto della via Ariminensis, la più antica arteri che raggiungeva la città romana fin dalla sua fondazione e che quasi certamente esisteva anche prima. Ai suoi bordi, una necropoli: 27 le tombe scavate, ma senza dubbio ce ne sarebbero molte altre. Tante le sorprese, le informazioni preziose, ma anche nuovi misteri che si sommano ai non pochi che già arrovellavano gli studiosi.

Lo strato di ghiaia e ciotoli della via Ariminensis

Ma intanto le conferme: “Abbiamo portato alla luce una via romana  riferisce Giulia Bartolucci di adArte – di cui si era molto parlato nelle fonti scritte. Questa è però la prima volta che la vediamo con i nostri occhi e possiamo esaminare dei reperti materiali. Si è verificato che almeno in questo tratto non era una via lastricata, ma glareata: un battuto di ghiaia e ciotoli”. Se non che, le strade trovate sono tre: col tempo il tracciato variò allontanandosi progressivamente dal Marecchia, probabilmente a seguito delle sue intemperanze. “La più antica è riconoscibile dal fatto che in seguito vi furono scavate delle tombe”. 

Al centro, un’anfora intatta trovata in una sepoltura

Difficile datare esattamente le tre strade, non essendovi stati trovati reperti se non una monetina dell’epoca di Costantino. Ma è più agevole dare un’epoca alle sepolture: “Sono tutte tombe a incinerazione – spiegano gli archeologi a un pubblico tutt’orecchie – cioè vi sono sepolte le ceneri e i residui di ossa dei defunti arsi ritualmente. Ora, noi sappiamo che i Romani bruciarono i loro morti fino al II secolo dopo Cristo, per poi passare esclusivamente all’inumazione. Qui le inumazioni sono quattro, ma sono di bambini e loro non venivano cremati”.  Alcuni roghi funebri furono accesi direttamente nelle fosse (“bustum”), come si può vedere dalle pareti scottate che hanno assunto una tinta arancio; in altre furono deposti i resti di pire consumate altrove. Alcune tombe sono estremamente povere, ma non poche denotano un discreto livello sociale.

La mappa dello scavo

Poi per restringere le date intervengono le monete. Sono gli oboli per Caronte, il tributo che ogni trapassato doveva pagare al traghettatore infernale e che a questo scopo veniva amorosamente i famigliari deponevano nella tomba. Ne sono state trovate sei e vanno dall’imperatore Claudio (41-54 d.C.) ad Adriano (117-138 d.C.). Insomma siamo grosso modo fra primo e secondo secolo, all’apogeo dell’età imperiale. Ma ci si potrebbe spingere anche qualche tempo più avanti, perchè ai defunti si destinavano spesso monete non più in circolazione, magari tenute appositamente da parte perchè emesse da qualche imperatore particolarmente amato.

I sei oboli da un solidus (da cui “soldo”) e la monetina costantiniana

Sulla sinistra, tre campanellini in bronzo

I corredi comprendono piccoli balsamari in vetro, a volte deformati dalle fiamme, campanellini in bronzo, piccoli lavori in terracotta, vasellame. O chiavi, tipiche delle sepolture femminili: quali custodi della casa, le matrone le tenevano sempre indosso, così come le azdòre romagnole le avrebbero sempre portate al collo. Alcune ceramiche, compreso un vaso intatto e un altro che era impiegato come “canale libatorio”. Ovvero, privato del fondo, serviva come imbuto per introdurre nel sepolcro le offerte rituali. Erano il cibo che i vivi donavano ai parenti nell’aldilà: qui sono state trovate ossa di pollo e piccoli uccelli, ma consistevano anche in grano, vino e olio.

Balsamari in vetro

Al centro, una chiave di un corredo funerario femminile

E ancora, piccole statuette in terracotta, una raffigurante un gallo. Era l’animale sacro ad Esculapio, dio della medicina: il defunto gli era devoto per fronteggiare una malattia, oppure era lui stesso un “sanitario”? Altre terrecotte sono lucerne e tegole, con ulteriori importanti informazioni: vi si legge il marchio della loro fabbrica. Una lampada a olio è bollata FORTIS: “Si trattava di una vera industria – spiega Giulia Bartolucci – che operava su larga scala servendosi di una rete di fornaci molto estesa”.

A sinisra, un piccolo gallo in terracotta

“Sappiamo che questa in questa zona le officine ceramiche erano fiorenti. nel bacino del Marecchia c’era un vero e proprio distretto industriale dedicato alla lavorazione delle argille”. Su una grossa tegola appare un altro bollo:  T.APUSI.AMPLATI: “Era un gruppo industriale più piccolo ma con diverse filiali, che operava su scala regionale e aveva come centro Modena”.

Lucerna a olio con bollo FORTIS

Tavellone con bollo T.APUSI.AMPLATI

Perchè una necropoli proprio qui? “Nel raggio di 500 metri doveva esserci un nucleo abitato. Non una semplice fattoria, ma un vicus, un villaggio rurale di una qualche importanza. E come sempre, lungo una strada trafficata, perchè il terrore degli antichi era che ci si dimenticasse di loro e del loro nome e volevano restare dove tutti potevano vederli”, affermano gli archeologi. Ma dove era questo paese? E qui iniziano i misteri, che non si arrestano con l’età romana ma continuano fin nel Medio Evo.

Il luogo del supposto vicus non è mai stato trovato, nonostante da sempre ogni tanto siano emersi qua e là diversi reperti. Come non si è mai riusciti scoprire dove fosse una pieve esistente già prima del Mille, molto probabilmente sorta presso lo stesso nucleo abitato. Era San Giovanni in Bulgaria Nova, di cui dal Quattrocento in poi non si seppe più nulla. Finchè Currado Curradi (“Pievi nel territorio riminese nei documenti fino al Mille”, Luisè 1984) riuscì a risolvere almeno in parte in quello che lui stesso definì “uno dei più intricati ‘misteri medievali’ del Riminese”.

Infatti quel nome, Bulgaria – che non avrebbe a che fare con i Bulgari ma con un termine di origine franca, Bolgheria: “fattoria” – portava nel Cesenate, dove esistono tutt’ora una Bulgaria e una Bulgarnò. Su questa fascia adriatica Bulgaria è un nome non raro, specie se riferito a luogi sacri: se ne trova una vicino Senigallia nella valle del Cesano, la chiesa di San Pietro di Bulgaria a Stacciola (o a Monteporzio, scomparsa), un’altra è quella di San Gervasio a Mondolfo, la “Bulgaria” meglio conservata di tutte.

San Gervasio a Mondolfo (PU)

Ma in Romagna, quella pieve che appariva nei documenti più antichi senza che nessuno ricordasse più dov’era, non poteva che trovarsi dalle parti di Cesena. Invece lo studioso riminese provò, documenti alla mano, che Bulgaria si chiamava anche l’area dell’attuale Tenuta Amalia. E che vi sorgeva una chiesa di San Lorenzo in Bulgaria, un bel giorno spazzata via dalle piene del Marecchia. La zona tutt’ora è chiamata Bulgaria ed è compresa nella parrocchia di Corpolò, nonostante si trovi già nel Comune di Verucchio. E quindi quella pieve perduta di San Giovanni, più volte elencata nelle pergamene fra altre lungo il Marecchia, doveva essere per forza fra Villa Verucchio e Corpolò.

Illustrazione nel libro di Currado Curradi “Pievi nel territorio riminese nei documenti fino al Mille”

Ma esattamente in che punto? Secondo Curradi, l’ipotesi più probabile è che la chiesa parrocchiale di Santa Maria in Corpolò, di cui si parla giusto dal momento in cui dalle carte scompare San Giovanni in Bulgaria, sia stata costruita sul sito dell’antica pieve. Sotto le strutture attuali, peraltro frutto di numerose ricostruzioni, nel 1905 furono viste murature altomedievali “caratterizzate da modalità costruttive e architettoniche di un certo rilievo” appartenenti a una chiesa e a un cimitero. Ma resta un’ipotesi tutta da provare. Altro lavoro per gli archeologi: che in Italia non manca mai e a Rimini meno che meno.

Stefano Cicchetti

 

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