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Al Fulgor di Rimini “Gauguin a Thaiti”, un’intera vita per diventare giovane

Martedì 9 Aprile verrà proiettato al Cinema Fulgor il documentario Gauguin a Tahiti – Il paradiso perduto (2019, 100’) del regista Claudio Poli, all’interno della rassegna “L’arte al cinema”.

Da Tahiti alle Isole Marchesi, il docu-film prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital con il sostegno di Intesa Sanpaolo proporrà un viaggio alla ricerca del paradiso perduto, tra i luoghi che Gauguin scelse come sua patria d’elezione e attraverso i grandi musei americani dove sono custoditi i suoi più grandi capolavori. Sulle tracce di una storia che appartiene ormai al mito e sulle orme di una vita e una pittura primordiali.

PROGRAMMA

  • 20:30 Aperitivo / Buffet
  • 21:00 Alessandro Giovanardi introduce Gaugin
  • 21:30 GAUGUIN A TAHITI – IL PARADISO PERDUTO

Ingresso: intero 10 euro, ridotto 8 euro.

I biglietti potranno essere acquistati direttamente presso la biglietteria del Cinema Fulgor negli orari di apertura dalle 16:30 fino alle 21,00 tranne lunedì dalle 20:30 alle 22:00.
Non si accettano prenotazioni.

«Lève l’ancre pour une exotique nature»: la Tahiti di Paul Gauguin

«Partii invecchiato di due anni, ringiovanito di venti, più barbaro e tuttavia più colto» scrive Paul Gauguin, alla vigilia del suo rientro in Francia, in Noa Noa: un resoconto che sembra riferirsi più a un viaggio nel tempo, che ad un viaggio nello spazio. Ora che l’artista si appresta a lasciarla, Tahiti appare non tanto come un luogo geografico, definito, bensì come il cronotopo della sua personale esperienza artistica.

Solo la lettura di un’opera sui generis come Noa Noa – che in lingua maori significa “profumo” – può rendere la dimensione metatemporale del soggiorno isolano di Gauguin; essa, infatti, più che un diario del suo viaggio, è uno strumento letterario volto a esplicitare quella nuova poetica che l’artista, proprio a Tahiti, finì per maturare.

Cosa possono insegnare i primitivi indigeni di Tahiti a un civilizzato e progredito artista europeo? Cosa porta un pittore a lasciare la Parigi di fine Ottocento, capitale culturale del tempo, e raggiungere un’isola sperduta nel bel mezzo dell’oceano?

Non serve spendersi in alcuna speculazione critico-artistica, basta semplicemente attenersi alle parole dello stesso Gauguin: «Possa venire il giorno (e forse verrà presto) in cui fuggirò nei boschi di qualche isola dell’Oceania, a vivere d’estasi, di calma e d’arte, circondato da una nuova famiglia, lontano dalla lotta europea per il denaro. Lì a Tahiti potrò ascoltare, nel silenzio delle belle notti tropicali, la dolce musica sussurrare degli slanci del mio cuore in amorosa armonia con gli esseri misteriosi che mi saranno attorno. Finalmente libero, senza preoccupazioni di denaro, potrò amare, cantare e morire» scrive alla moglie Mette nel 1890, pochi mesi prima di salpare verso Tahiti.

Una libertà ormai perduta nel ricco e florido Occidente, una purezza d’animo corrotta dalla spasmodica ricerca del progresso, dell’utile, e da tutte quelle convenzioni borghesi interessate, formali e soffocanti. Gauguin aveva cercato invano questa purezza già in Bretagna, in Martinica, e ad Arles, nella turbolenta convivenza artistica con Van Gogh.

È in questa luce che possiamo cogliere allora il significato ultimo del viaggio gauguiniano: inseguire il miraggio della libertà. Al giovane artista, nato a Parigi ma cresciuto in Perù, il perimetro di una qualsiasi città appare come asfissiante e limitato, tanto che non può fare a meno di mutare continuamente orizzonte.

È significativo come nella lettera sopracitata Gauguin sembri già respirare l’atmosfera dell’isola: «silenzio», «esseri misteriosi», «armonia». Ancor prima di partire, e raggiungere quelle terre che di lì a poco visiterà, l’artista sembra assaporarne il profumo e coglierne lo spirito più profondo. Sono proprio questi, infatti, gli aspetti aprioristici che Gauguin sperava di trovare a Tahiti, e che puntualmente farà in modo di scorgere: è chiaro quindi come l’itinerario dell’artista, prima ancora che un viaggio fisico, reale, geografico, sia qualcosa di metafisico e concettuale.

Ciò che muove Gauguin a partire non è tanto la volontà di esplorare nuove terre, di ricercare quell’esotismo tanto in voga fra gli artisti a lui contemporanei, bensì il desiderio di viaggiare all’indietro nel tempo, fino alle radici primordiali dell’uomo, a una natura selvaggia e incontaminata, alla purezza che non conosce né menzogna né corruzione.

Il suo sguardo volto all’indietro è, in realtà, uno sguardo proteso altrove, bramoso di fondere le sue esigenze poetiche con la realtà che lo circonda. Come scrisse Mirbeau ne Le Figaro, nel 16 febbraio 1891, Gauguin è un «uomo che fugge la civiltà in una volontaria ricerca di oblio e di silenzio per meglio ascoltare se stesso, per porgere orecchio a quelle voci interiori che passioni e dispute coprono abitualmente con il loro fragore…».

Ben presto, però, le poetiche aspettative dell’artista devono fare i conti con la prosaica realtà della capitale Papeete, ormai diventata – a causa dei francesi – un ibrido che nulla preserva dell’originaria appartenenza maori. Per di più, a pochi giorni dal suo arrivo nell’isola, Gauguin assiste ai funerali del re Pomaré, che gli appaiono simbolicamente come il segno della fine di un’intera civiltà: «con lui scomparivano le ultime vestigia delle tradizioni maori. Era davvero finita: nient’altro che civilizzati. Ero triste, venire da così lontano per… Sarei mai riuscito a ritrovare una traccia di quel passato così lontano, così misterioso?» scrive ancora in Noa Noa.

È in quest’ultima domanda, apparentemente desolata, che deve essere ricercato il senso della sua missione. Tristemente sorpreso dalla terra in cui aveva riposto tante artistiche speranze, Gauguin non si arrende, bensì coglie in quell’interrogativo un nuovo slancio, un’ulteriore motivazione. Come far riemergere l’ancestrale e candida civiltà maori, celata ormai dietro le ipocrite, asfissianti e opprimenti maschere di un Occidente civilizzato? Solo l’arte è capace di tanto, e Gauguin ne è pienamente consapevole.

La sua poetica assume allora un nuovo e sorprendente significato: dar voce a ciò che ormai tace, riprodurre quell’inebriante profumo – “Noa Noa” appunto – ormai dissolto in un’atmosfera razionale senza più misteri, asettica, priva di ogni credenza e superstizione. È lo stesso artista a spiegare, in un’altra lettera alla moglie, come Tahiti rappresenti per lui qualcosa di intimo e interiore, e non di fisico ed esteriore: «Tu dici che sbaglio nel restare lontano dal centro artistico. No, ho ragione, so da gran tempo quello che faccio e perché lo faccio. Il mio centro artistico è nel mio cervello e non altrove e sono forte perché non mi lascio fuorviare dagli altri e perché faccio quello che ho dentro».

Analizzando la sua produzione artistica isolana risulta evidente come Gauguin, nel bel mezzo dell’oceano Pacifico, rimanga più occidentale di quanto lui stesso creda, o comunque voglia ammettere. Non lo è tanto nei contenuti, che sembrano realmente riprodurre quel bagliore di magia ancora permasto fra gli indigeni, quanto invece nelle forme, nelle pose, nell’impostazione.

“Ia orana Maria”

Specie nel primo periodo, Gauguin declina la quotidiana poesia di quegli indigeni, ancora preservata dalla corruzione dei colonizzatori occidentali, in chiave europea, e quindi in un linguaggio cristiano. Chiaro esempio del suo tipico sincretismo è  Ia orana Maria (“Io vi saluto Maria”, olio su tela, 1891-1892, Metropolitan, New York), dove l’artista intesse quel paradiso in cui era approdato con i canoni dell’arte figurativa religiosa: il formato verticale della tela, infatti, ricorda quello di una pala d’altare, mentre le due donne in preghiera sono riprese da alcune danzatrici scolpite nei rilievi del Tempio di Borobudur di Giava.

“Manao tupapao”

Solo successivamente, aggiornando il suo linguaggio artistico, Gauguin riesce a superare quest’iniziale limite di formalizzazione; emblema della sua nuova arte è il quadro Manao tupapau (“Lo spirito dei morti veglia”, olio su tela, 1892, Albright-Knox Art Gallery, Buffalo) che, più che una semplice tela, sembra un manifesto, una dichiarazione di poetica esplicita: sospeso tra mito e realtà, fra superstizione e conoscenza, Gauguin dà forma all’essenza animistica della religione maori. Il colore diviene allora mezzo per esprimere una paura infantile, in virtù del suo potere di aprire un varco verso l’interiorità del fruitore: le tinte cupe del quadro proiettano in una dimensione angosciante, enigmatica; i ricercati accordi cromatici «suonano agli occhi come un rintocco funebre», spiega lo stesso artista; la successione ritmica di linee orizzontali ondulate immortala un terrore irrazionale, inspiegabile e indicibile, che ossessiona la bambina maori. Gauguin giunge finalmente a scorgere quell’agognata purezza, che tanto aveva ricercato per tutta la sua vita, dipingendone i silenzi più profondi, gli incubi più inquietanti.

Una tale svolta artistica non può che corrispondere a una nuova esperienza di vita, e quindi a un nuovo viaggio: il 3 luglio 1895 Gauguin parte per la seconda volta verso Tahiti. In precarie condizioni economiche, in un pessimo stato di salute, presa notizia della morte di due dei suoi figli, decide di dare un ultimo senso alla sua esistenza: schierarsi con tutte le sue forze a difesa degli indigeni contro le autorità coloniali francesi.

La sua strenua attività politica e letteraria, esercitata nei giornali satirici e polemici Les Guêpes e Le Sourire, gli causa l’accusa di diffamazione nei confronti del governo, e la conseguente condanna a tre mesi di prigione. Pagata una multa di cinquecento franchi, viene di nuovo condannato.

La sua salute peggiora. L’artista sente prossima la fine dei suoi giorni. Più la morte si avvicina, più realizza di essere divenuto parte integrante di quella vergine terra. L’8 maggio del 1903, Paul Gauguin muore come un uomo felice, un uomo che ha impiegato un’intera vita per diventare giovane.

Edoardo Bassetti

(Citazioni tratte da: Paul Gauguin, Noa Noa e lettere da Tahiti, a cura di Lorella Giudici, Abscondita, Milano, 2007).

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