solo 2021. Questo il drammatico dato da cui ha preso il via oggi il convegno “Percorsi di cura nelle dipendenze da sostanze in USA e in Italia” organizzato da San Patrignano all’interno della comunità in collaborazione con il New York Presbiterian – Weill Cornell Medical Center e con il sostegno dell’Alexander Bodini Foundation e di Friends of San Patrignano.
“In USA il problema dell’abuso di sostanze è figlio di tre ondate diverse – ha spiegato Jonathan Avery, direttore di Psichiatria delle dipendenze al NYP – La prima era dovuta alla prescrizione di farmaci oppiacei fra adolescenti, poi è aumentato l’accesso al mercato illegale di eroina e infine abbiamo assistito al dilagare del Fentanyl, che dà una dipendenza e una possibilità di overdose ancora maggiore. A New York contiamo dieci overdose al giorno ed è indispensabile trovare una soluzione”.
Proprio per questo medici ed esperti americani oggi si sono confrontati in comunità con i corrispettivi italiani. “Spesso la dimensione sociale del problema della tossicodipendenza viene tenuta separata da quella sanitaria – ha esordito in videocollegamento il Ministro della salute, Roberto Speranza – ma dal punto di vista della persona sono problemi connessi. E’ il tempo giusto per un salto di qualità, valorizzare le esperienze importanti del nostro Paese per rendere più forte il nostro Sistema Sanitario Nazionale e la tutela del diritto alla salute”.
Fra le esperienze importanti, quindi, quella delle comunità di recupero, come ha sottolineato anche il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri: “Dobbiamo passare dal concetto di cura a quello di prenderci cura, idea che San Patrignano ha iniziato a sviluppare tanti anni fa. Alla persona dipendente dobbiamo permettere di recuperare tutte le abilità cognitive, emotive e relazionali; non può e non deve essere solo un aspetto sanitario. E dobbiamo valorizzare la formazione degli educatori che c’è dietro un percorso del genere”.
A fargli eco l’assessore regionale alle Politiche per la salute Raffaele Donini: “Serve una presa in carico globale della persona, integrando la sfera sociale con quella sanitaria”. Gabriele Moratti, membro della Fondazione San Patrignano, ha sottolineato: “La tossicodipendenza è una prigione, un buco nero che risucchia tutto ciò che di bello c’è intorno. Nella vita dei tossicodipendenti non esistono amicizia e affetto, ambizione, sport, orgoglio per quello che si fa, e spesso non esistono parole di conforto. Sapere che ci sono persone che si interessano a loro ha grande significato, perché non sentirsi soli per chi è fragile ha grande importanza”.
Parole che hanno destato grande interesse nei relatori americani, abituati a interventi farmacologici e percorsi clinici per lo più di brevissima durata, come ha sottolineato Philip Wilner, vicepresidente e direttore operativo al New York Presbiterian: “Il primo modello per affrontare le dipendenze era quello morale, con il programma a dodici fasi; poi quello psicologico ed infine quello medico. Oggi abbiamo appreso che ha una grande rilevanza il modello sociologico. Il team che guida San Patrignano ha sviluppato un’idea di società, della ricerca di un significato attraverso il lavoro di ogni giorno. E’ un modello che richiede tempo per essere efficace, ma dobbiamo passare dalla terapia alla cura e alla ricostruzione”.
Programmi di lunga durata che negli Stati Uniti in questo momento sono difficili da realizzare vista la drammaticità del momento. Per questo la dottoressa Lipy Roy ha sottolineato l’importanza della riduzione del danno e quindi dei farmaci sostitutivi come metadone e subuxone. Antonio Boschini, responsabile terapeutico di San Patrignano, ha tenuto a precisare: “Non può esserci recupero se una persona muore. Questi farmaci sono indispensabili, ma è fondamentale che il problema venga affrontato in tutti i suoi aspetti. Chi dice che la dipendenza è come il diabete per me sbaglia. Ci sono cure per il diabete, ma non per la dipendenza. Serve una sinergia fra la risposta medica, quella farmacologica e quella biologica”.
E in parte qualcosa si sta muovendo anche negli Stati Uniti se Kristopher Kast, direttore di Psichiatria delle dipendenze alla Vanderbilt University ha sottolineato: “Aumentare la diversità di trattamento è la strada da seguire. La transizione fra i diversi livelli di cura e ciò che manca negli Stati Uniti”.
Un sistema che in Italia è avviato da tempo con 202 servizi a bassa soglia, 1001 servizi ambulatoriali e 928 servizi residenziali, semiresidenziali, ospedalieri e specialistici, come ha raccontato Sabrina Molinaro, responsabile sezione Epidemiologia e ricerca sui servizi sanitari IFC-CNR, che ha comunque sottolineato la diversa situazione del nostro Paese: “In Italia fortunatamente non abbiamo lo stesso problema a livello di overdosi, ferme alle 293 del 2021 – ha spiegato –. Ma abbiamo visto come i quantitativi di cocaina sequestrati siano risultati maggiori rispetto il passato, mentre la cannabis è la sostanza più utilizzata fra i giovani, con il 22% che ha un consumo a rischio”.
A sottolineare la qualità della risposta italiana al problema delle dipendenze Camillo Smacchia, direttore del Ser.D. di Verona: “La sanità pubblica spesso viene posta in antagonismo alle comunità, ma ricordo che l’assistenza alla persona tossicodipendente è capillare fra Serd e comunità, cosa che non esiste da nessun’altra parte. Siamo importanti noi per le comunità e lo sono loro per noi”.
Una risposta alle dipendenze che deve guardare a tutte le possibili soluzioni in campo, compresa la stimolazione magnetica transcranica, come ha spiegato Antonello Bonci, presidente e direttore scientifico GIA e Vita Recovery, in collegamento da Miami: “La TMS inizialmente è stata applicata per pazienti con problemi di cocaina. E’ una tecnologia non invasiva, utile come trattamento aggiuntivo per aiutare i pazienti. Ha 4 effetti: rilascio di sostanze chimiche, aumento della circolazione, aumento di plasticità a livello sinaptico, effetto antinfiammatorio”.
A parlare dell’importanza del combattere lo stigma la giornalista Betsy McKey del Wall Street Journal che ben conosce il problema negli Stati Uniti: “Sta a noi descrivere al meglio la situazione delle persone dipendenti e dobbiamo raccontare anche le possibili soluzioni al problema. Non esiste persona buona o cattiva, ma dobbiamo scrivere delle sue lotte interne, dei suoi difetti, degli incidenti che l’hanno portata a questa situazione, cosa molto difficile da trattare in un articolo”. A farle eco la giornalista italiana di Avvenire, Viviana Daloiso: “Sui giornali italiani la droga spesso è raccontata e di contro percepita come elemento distintivo a contorno di condotte sfrenate. Nessun giornale italiano si è occupato di comunità e percorsi di recupero negli ultimi 6 mesi, tema invisibile ai media. Le famiglie si ritrovano in questo mondo in cui finite le ‘feste’, quando vieni preso in carico, diventi un problema, e quindi c’è lo stigma”.