Domenica è finito il Santarcangelo Festival 2018, la manifestazione più internazionale di questo territorio, che unisce la piazza alle forme più sperimentali del teatro. Una manifestazione che in questi 48 anni ha sempre ricercato quello che ancora non conosciamo, e che spesso può risultare poco chiaro e controverso.
Ho sempre sostenuto che Santarcangelo abbia creato negli anni un’identità straordinaria, tenendo assieme la contraddizione magica del piccolo paese dalle forti tradizioni romagnole e la propensione (non scontata) a volare alto. Il nostro paese si è sempre spinto in punta di piedi fino ai confini estremi di ciò che è già certo, per provare e riprovare, con l’ambizione di spingersi oltre i propri limiti.
Il tema di quest’anno era la paura, il “cuore in gola”, un’emozione che la direzione artistica è riuscita a sviluppare con intelligenza, eleganza e brutalità.
La mia lettura delle reazioni ad alcune performance ed in particolare allo spettacolo “Multitud” va in questa direzione: non ci siamo indignati per dei culi nudi che si esibiscono qualche minuto dentro uno spettacolo di un’ora e mezza. Ma, più verosimilmente, di quella moltitudine di corpi noi abbiamo avuto paura.
Perché dentro lo spettacolo truce fatto di vite umane che si stringono, si stracciano i vestiti come in una violenza di gruppo, si aggrovigliano urlando nella sofferenza collettiva, ci siamo trovati di fronte a ciò che spesso non vogliamo vedere. Le tante miserie umane che teniamo distanti per mezzo dello schermo della televisione, sono state messe in scena nella piazza principale del paese.
Così nasce spontanea una domanda: Dobbiamo avere paura della cultura? O deve più spaventarci la cultura della paura che ogni giorno vediamo invadere il nostro paese?
La paura è un sentimento contemporaneo, che può diventare strumento di manipolazione politica ed economica: la spinta diffusa all’isolamento sociale, dove ognuno fa per sé, nella piena diffidenza verso gli altri, nella convinzione di poter barattare la sensazione di essere protetti in cambio della chiusura dei confini, che spesso non risalgono a quelli della geografia ma diventano quelli della mente.
Barricarsi in casa e chiudere le finestre per non vedere cosa c’è fuori non può diventare il nuovo approccio a questo mondo globale.
Credo che la fine dei sentimenti che uniscono una comunità sia la fine della comunità stessa.
Anche la paura può essere un sentimento di cui riappropriarsi come comunità e come individui, recuperandone l’originaria funzione, come elemento di forza e coesione quando è vissuta in un ambiente protetto e viene condivisa.
E sarebbe un bene se la cultura, il teatro e la piazza provocassero la reazione di stringersi attorno ad un valore comune, dove certo possono esistere visioni differenti, ma sempre nel riconoscimento di una collettività. La censura e la preclusione non ci permetterebbero di affrontare il mare aperto, e saremmo rilegati a piccole convinzioni fuori dalla realtà. Una prospettiva legittima ma inconciliabile.
Da questo festival 2018 invece, una visione per questo confuso futuro emerge: la città aperta, curiosa, pronta a evolversi crea interesse, discussione, attrae intelligenze.
Possiamo allargare i nostri confini, superare i nostri limiti, perché possiamo contare su radici profonde e una grande voglia di fare un salto verso l’alto. Se siamo insieme, senza paura.
Filippo Sacchetti (cittadino di Santarcangelo prima che amministratore)