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Te lo dico io chi erano i Beatles!

Giovedì 15 settembre dalle ore 20:30, al Cinema Settebello di Rimini, si terrà un evento in occasione dell’uscita del nuovo film di Ron Howard, The Beatles – Eight Days a Week. La proiezione sarà introdotta dalla musica live dei Rangzen, che suoneranno cover dei mitici Fab four. Per l’occasione abbiamo intervistato Claudio Cardelli, membro storico della celebre Beatles band.

Rangzen

I Rangzen come i Beatles: concerto sul tetto (della vecchia redazione di Chiamami Città)

Partiamo col botto: che ricordo avete di quel gennaio 2005, nel quale avete inciso nel mitico studio 2 di Abbey Road a Londra, che è stato forse l’evento più significativo della vostra carriera?

«Abbiamo un ricordo di grandissima emozione, di incredulità quasi. Per me – diciamo l’anziano del gruppo – è stata una cosa ancora più forte rispetto ai ragazzi che, non avendo avuto la loro infanzia e adolescenza farcita delle immagini dei Beatles che registravano Abbey Road, erano emozionati ma certamente non come noi. Quando abbiamo visto quei pannelli fonoassorbenti, quelle casse che erano ancora quelle… non ci potevamo credere! Mi tremavano le gambe. Uno dei momenti più emozionanti è stato quando si è accesa la luce verde, e quindi potevamo entrare. Poi abbiamo avuto un fonico bravissimo, che era quello che lavorava a quel tempo con Paul McCartney, che ci ha messo molto a nostro agio. Abbiamo scelto di utilizzare il tempo a disposizione per incidere diversi pezzi, piuttosto che uno più volte: abbiamo fatto praticamente un live che è venuto molto bene penso, perché poi l’abbiamo anche pubblicato…».

Oltre ad un gruppo in particolare – i Beatles, come in questo caso – siete soliti portare sul palco una vera e propria atmosfera, un intero periodo, quello delle radici del Rock’n Roll e della Beat music. Cos’avevano di così speciale quegli anni?

«Io parlo da testimone: avevo 16 anni nel ’66, e questo significa che sono stati gli anni del cosiddetto imprinting, gli anni in cui tu prendi visioni del mondo, esci di casa… le prime curiosità extraterrestri, chiamiamole così – io in particolare per l’oriente: ho cominciato a 20 a viaggiare in oriente, e da allora non mi sono mai fermato. Sono stato quasi tutti gli anni in India, in Afghanistan, in Iran, nel sud est asiatico, ma in particolare in India. Questa cosa per me è stata determinata dall’incontro con la musica dei Beatles. Ricordo perfettamente che furono proprio le sonorità di George Harrison, I love you to, Within You Without You... mi fulminarono letteralmente come suono. Una suggestione che mi ha accompagnato, e che mi accompagna per quel che mi rimane da vivere. Quelli erano anni senza internet, senza la possibilità di allontanarsi più di tanto dal nostro borgo, erano anni in cui praticamente tutto era godibile, tutto era conquistato, anche con fatica, come i soldi per comprarsi un disco. Adesso siamo in una sovrabbondanza di tutto… evidentemente questa cosa crea nell’essere umano in generale un senso di stanchezza, e di poca voglia di combattere; invece allora tutto era da conquistare, compresi i testi delle canzoni che, per esempio, non erano pubblicati da nessuna parte: quindi o avevi qualcuno che sapeva bene l’inglese che ti aiutava sennò… era tutto molto romantico, molto poetico… era l’inizio, e gli inizi sono sempre bellissimi, come nelle storie d’amore».

Perché, a suo avviso, quel mondo immaginato da John Lennon, fatto di pace laicismo e uguaglianza, sembra oggi paradossalmente ancor più lontano di allora? Perché abbiamo disatteso tutti quei sogni che sembravano essere ormai alla portata?

«Io credo ci sia stata una rivoluzione da parte del web, che ha creato tanti vantaggi, ma anche tutta una serie di effetti collaterali devastanti, per esempio nell’economia: il mercato della musica e del cinema è in grande difficoltà. Questa fruizione gratuita, questa omologazione, questa globalizzazione…  I problemi della produzione esportata per avere ancora più margini di guadagno, la delocalizzazione… rovinare le nostre aziende, la nostra cultura. Insomma la globalizzazione è stata un po’ il grande veleno che ha creato anche questo egoismo feroce che c’è adesso. Purtroppo, come dicevi tu, i sogni sono sfuggiti per un soffio. Però c’è chi ci crede ancora: io, per esempio, sono un sostenitore della causa del Tibet da oltre 30 anni, e come me tante persone che conosco credono in questi valori, che erano poi anche quelli di John Lennon; ci crediamo ancora… come diceva un altro “non siamo spariti, siamo solo diventati più invisibili”; però ci siamo sempre, quindi una speranza c’è. Se cambiano noi cambia tutto il mondo: non c’è bisogno che andiamo a imporre cambiamenti agli altri. Dovremmo cominciare a lavorare prima dentro noi stessi.»

In opposizione all’omologazione, non a caso, il nome della vostra band è Rangzen, che in tibetano significa “indipendenza”; quanta ne è rimasta, secondo lei, all’interno del panorama musicale italiano, che vede gli artisti sempre più costretti a seguire percorsi obbligati, come ad esempio quello dei talent show?

«Intanto occorre dire che non c’è mercato. Ormai il mercato è solo quello dei live, se si riesce a suonare; chi è che compra più dischi? Sono stato adesso tre giorni con Klaus Voormann, che era nostro ospite per il concerto al teatro Novelli; un musicista di 78 anni, che è stato bassista di John Lennon… uno che ne sa tante insomma… e quando parlavamo di cd lui mi ha detto “forget it”, con la mano, come a dire “dimenticali… sono roba morta”. Quando io ero ragazzo il rock era un fenomeno di massa, ora è una cosa quasi di nicchia; eppure sono rimasti dei grandi musicisti: mi hanno detto, ad esempio, che il concerto di ieri sera di Zucchero è stata una cosa strepitosa, e tra l’altro c’era anche il mio amico Brian Auger, come tastierista; io, per dire, Zucchero lo stimo molto, in Italia. Tornando all’indipendenza, entrambi i miei ragazzi fanno cose loro, pezzi originali: Riccardo fa electro funk, Francesco fa drummer base… loro sognano ancora di potersi inserire in un mercato che abbia un senso, di fare il salto di qualità… io glielo auguro, ma la vedo molto difficile. Quello è però un discorso che riguarda chi fa musica sua, noi come Rangzen siamo ormai dei cultori della musica classica, diciamo del decennio ’62-’72; noi la consideriamo musica classica come fare Beethoven o Chopin. Ormai quella è musica classica a tutti gli effetti. L’altra sera, quando ho suonato Tomorrow Never Knows, vedevo che c’era una grande tensione in sala e mi dicevo: “questo pezzo ha 50 anni esatti, ed è di una modernità sconcertante”: sono valori assoluti, che rimangono».

Da cosa nasce il vostro grande impegno per il Tibet, che vi ha portato, nel 2000, ad essere l’unica rock band occidentale ad aver suonato davanti al Dalai Lama, e a diecimila tibetani a Dharamsala, in India?

«È una cosa che ho imposto io in qualche modo; nel senso che, come dicevo prima, il mio impegno risale agli anni ’70, e quando è stato il momento di scegliere il nome della band, a me è venuto in mente di proporre questo nome un po’ particolare, e anche un po’ difficile da pronunciare. Gli altri, però, lo hanno accettato con grande entusiasmo. Questa cosa ha anche un po’ determinato la nostra carriera. Ci ha dato appunto l’opportunità di suonare in un contesto non da poco insomma: il Dalai Lama ha assistito a qualche concerto qua in occidente, ma che un gruppo europeo abbia suonato davanti a lui, laggiù dove abita, non era mai successo. Io, a differenza dei ragazzi che non erano mai stati là, ho una certa consuetudine con quel posto quindi facevo un po’ da padrone di casa, però… quando abbiamo cominciato a cantare (ride ndr) la voce cominciava a fermarsi in cima alla gola… ricordo che mi sono commosso, e avevo proprio le lacrime. È stato bello. C’è un nostro video, poi, su Youtube…»

Un’ultima domanda, tornando ai Beatles: cosa secondo lei li ha resi la band per eccellenza nella storia della musica?

«Ci sono due fasi dei Beatles: la prima è stata quella in cui l’influenza dell’altra musica, quella americana degli anni ’50, ha creato il loro marchio di fabbrica iniziale. Ispirazioni che riguardavano i vari rocker americani: quindi Chuck Berry, Bo Diddley, Charles Parkers… e i vocalizzi, per esempio, degli Everly Brothers, che sono stati un po’ quelli che li hanno ispirati. Poi, ad un certo punto, hanno avuto questo momento in cui hanno deciso che cambiava tutto. Momento che per me si può identificare con Rubber Soul e poi Revolver, che è il momento in cui la sorgente ha sprizzato con il massimo della violenza e dell’energia. A quel punto lì, hanno scritto prima di tutti gli altri quello che poi sarebbe successo negli anni successivi: la psichedelia, lo stesso punk – perché ci sono dei brani, come per esempio Everybody’s Got Something To Hide Except Me And My Monkey, che sono francamente punk -, oppure la stessa Helter Skelter di Paul McCartney è un pezzo di heavy metal. Hanno precorso assolutamente i tempi. Ancora oggi chi li coltiva continua a scoprire cose nuove; poi adesso con il web c’è la possibilità di scrutare nei meandri… è un viaggio fantastico che non stanca mai».

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