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30 aprile 1849 – Rimini festeggia la Repubblica Romana che ha umiliato i Francesi

Il 9 febbraio 1849 era stata proclamata la Repubblica Romana. Anche Rimini vi aveva aderito, insieme a tutte le città della Romagna e degli Stati Pontifici. Il 21 e 22 gennaio si erano tenute le elezioni dell’Assemblea Costituente ed Enrico Serpieri era risultato eletto come rappresentante del territorio riminese; divenne Questore del parlamento repubblicano.

Per difendere la Repubblica, da Rimini erano partiti ben 275 volontari, con aiuti anche da San Marino. E intanto Roma, che aveva dichiarato decaduto il potere temporale dei Papi e costretto Pio IX all’esilio, si ritrovava contro tutte le potenze cattoliche europee, grandi e piccole.

Da nord calavano gli Austriaci, che già minacciavano Bologna con 16 mila uomini. Da sud giungeva con 8.500 soldati e una cinquantina di cannoni l’esercito napoletano, comandato da Ferdinando II di Borbone in persona, il sovrano delle Due Sicilie già famigerato come “il Re Bomba” per aver cannoneggiato senza pietà i civili nella Sicilia in rivolta. A Gaeta era sbarcato un corpo di spedizione della Regina di Spagna Isabella II forte di 9 mila uomini. E Luigi Napoleone, neo presidente dei Francesi che cercava di far dimenticare un passato da cospitarore carbonaro condannato a morte in contumacia e latitante per le Romagne, avendo ora caro il voto cattolico aveva inviato a Civitavecchia 6 mila soldati comandati dal generale Oudinot. Saranno loro, i soldati dell’unica grande repubblica d’Europa ad assalire la repubblica rinata nella Città Eterna dopo due millenni. Per poi rimediare, quell’esercito reputato il migliore d’Europa, una sonora sconfitta. Gli altri, i cattolicissimi re e imperatori Asburgo e Borbone, a Roma non riusciranno nemmeno ad avvicinarsi. Incredbilmente bloccati, beffati, sbaragliati da arruffati ed eterogenei volontari: dagli irriducibili guerriglieri che avevano visto il Sud America con Garibaldi, ai Bersaglieri del 24enne Luciano Manara reduci delle Cinque Giornate di Milano. E le Guardie Civiche emiliane, romagnole, marchigiane, umbre e laziali. Più le truppe regolari pontificie, almeno quelle italiane ma anche polacche e ungheresi, ingrossate da una leva cui in pochi si sottraevano ora che il Papa non c’era più. Tutti accorsi a difesa della Repubblica governata di fatto da un triumvirato: il genovese Giuseppe Mazzini, il forlivese Aurelio Saffi e il romano Carlo Armellini.

Il generale Nicolas Charles Victor Oudinot

Così Carlo Tonini racconta quei giorni visti da Rimini: «Un proclama dei Triumviri eccitava quindi i popoli a portarsi in massa a difenderla; e per tener sollevati gli spiriti si spacciavano notizie di felici successi, e quella segnatamente che il generale Garibaldi avesse fugati duemila Napoletani. Verace del tutto però ed importantissima era quella mandata qui dal Deputato Enrico Serpieri, che si affìsse in pubblico a stampa il 3 di maggio, sulla sorpresa fatta il 30 d’aprile dai  nostri repubblicani ai repubblicani francesi avanzatisi dalla parte del Vaticano, e sulla strage ad essi inflitta. La sera stessa ne venne da Roma la conferma ufficiale; e non è a chiedere se e quanto se ne facesse festa. Altrettanto felici si spargevano le novelle dalla parte di Bologna, oppugnata dagli Austriaci: potersi essa pure benissimo difendere: doversi perciò con tutte le forze correre a quella volta. E senza dilazione si toglievano alcuni piccoli cannoni dalle barche, e dopo una breve sosta sulla piazza del Comune si facevano partire con una mano di armati». 

Quello dei cannoncini delle barche è un dettaglio significativo. La marineria, tradizionalista per sua natura, a Rimini si era sempre schierata veementemente dalla parte dell’Ancien Regime, come si vide con la cacciata dei Francesi da parte degli insorgenti di Capitan Federici nel 1799. Meno di 50 anni dopo è cambiato tutto. Il governo del Papa Re non lo vuole più nessuno.

La bandiera della Repubblica Romana

Ma cos’era successo il 30 aprile 1849? E cosa c’entravano i riminesi?

Roma era difesa da circa 10 mila soldati della Repubblica, mentre altrettanti erano dislocati in diverse zone del territorio. Le truppe erano suddivise in quattro brigate: la prima, comandata da Garibaldi, presidiava il Gianicolo tra Porta Portese e Porta San Pancrazio; la seconda, agli ordini del colonnello Luigi Masi, stazionava sulle mura tra porta Angelica e porta Cavalleggeri; la terza, con i dragoni del colonnello Savin, controllava le mura della riva sinistra del Tevere, mentre la quarta, al comando del colonnello Galletti, era un reparto di riserva dislocato tra la Chiese Nuove e largo Argentina. L’attacco francese giunse il 30 aprile e il corpo di spedizione si presentò di fronte a Porta Cavalleggeri e Porta Angelica con 5 mila soldati.

Il generale Oudinot volle subito mostrare di non tenere in alcun conto le pittoresche forze italiane. Senza scomodarsi ad attendere l’artiglieria, mandò all’assalto i suoi uomini allo scoperto certo di una facile vittoria. Venne invece preso d’infilata a cannonate e a fucilate, ignominiosamente respinto dai militi della Guardia Civica mobilizzata, denominata anche Guardia Nazionale per l’aggiunta dei Corpi Civici provenienti dalle città degli Stati Romani. Era comandata dal capitano Ignazio Palazzi che aveva ricevuto il compito di difendere le Mura Vaticane. Proprio in questi reparti erano inquadrati anche i volontari riminesi.

Melchiorre Fontana: “L’assalto delle truppe francesi a Roma nel 1849” (1860 ca.)

Nei combattimenti, durati sino a sera, si distinse principalmente Garibaldi. Uscito quando i francesi stavano già per desistere da Porta San Pancrazio (sul Gianicolo) con il Battaglione Universitario Romano e con la sua Legione italiana, con un attacco alla baionetta sorprese alle spalle gli assedianti in ritirata a Villa Doria-Pamphili, provocandone la rotta. In serata Oudinot ordinò la ritirata su Civitavecchia, lasciando dietro di sé oltre 500 morti e 365 prigionieri.

Garibaldi alla difesa di Roma

Al termine della giornata, la Repubblica Romana aveva ottenuto un doppio trionfo, militare e politico. Il primo, evidente: un esercito di professionisti umiliato da una variopinta masnada di idealisti, molti dei quali giovanissimi letteralmente alle prime armi e non senza l’inquietante apporto di vecchi nostalgici napoleonici e giacobini, incalliti cospiratori e arruffapopolo di varia estrazione, quella ecclesiastica compresa.

Ma soprattutto aveva dimostrato mostrato l’attaccamento alla causa sia dell’esercito che della popolazione. E aveva svelata la pretestuosità degli argomenti di coloro che giustificavano la repressione dell’Italia come un’operazione di polizia contro le “tirannidi giacobine”. E ciò oltre un mese dopo Novara, la battaglia dove la sconfitta piemontese da parte degli Austriaci pareva aver messo fine a ogni speranza per la causa nazionale italiana.

Insomma i “poteri forti” di allora ebbero un bel po’ di motivi per preoccuparsi e riflettere. I più lungimiranti, dieci anni dopo si sarebbero ritrovati dalla stessa parte degli aborriti “giacobini” di Roma, magari per servirsene ai propri scopi. Che comunque, era palese, non corrispondevano più con l’ottusa difesa di un mondo che, piacesse o no, era finito da un pezzo.

Inoltre, l’intervento francese configurava una non provocata invasione volta al restauro di un governo assolutistico, quello del potere temporale del Papa Re. Ciò non mancò di provocare feroci reazioni nella politica parigina: solo l’anno prima, nel fatidico 1848, la Francia si era liberata a furor di popolo della monarchia dando il via a rivoluzioni a catena in mezza Europa e perfino in Sud America. E ora la Republique stava reprimendo chi proclamava le sue stesse idee? Una bella gatta da pelare per il suo presidente. Quel Carlo Luigi Napoleone Bonaparte che era stato egli stesso carbonaro, rivoluzionario, condannato a morte dai reazionari. E che aveva perso il fratello maggiore nel 1831 a Forlì mentre fuggivano insieme da latitanti. Anche lui nel 1859 ripenserà al necessario ma maledettamente imbarazzante intervento contro la libera Repubblica Romana e di fronte al mondo vorrà essere l’artefice dell’indipendenza italiana.

In tal senso, la giornata del 30 aprile fu davvero molto importante e può essere considerata come una delle date fondamentali della storia d’Italia.

Gerolamo Induno (combattente e gravemente ferito a Roma nel 1949): “Sentinella”

 

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