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Nella terra del piacere ci vuole una cultura del piacere

La Romagna, si sa, vanta una cultura enogastronomica invidiata in tutta Europa e anche Oltreoceano. Merito del proverbiale buon sangue dei suoi autoctoni, votati alla compagnia e all’accoglienza.

Oppure, con diabolica malizia, si potrebbe osservare che la più grande virtù romagnola sia anche un peccato: quello di gola. Meglio (o peggio) ancora: il piacere, somma delizia ma per alcuni sommo peccato.

Il piacere di donarsi agli altri e il piacere di godere delle buone cose. Noi di questo siamo maestri: lo sappiamo riconoscere e lo sappiamo regalare. L’attitudine al piacere, non è elemento esclusivo di biblica memoria. Presso molte culture – dall’Islam al Buddhismo sino all’animismo – il piacere ha sempre avuto questa doppia e potente natura, un sacro potere, ora esaltante ora distruttivo. Va da sé che in medio stat virtus («la virtù sta nel mezzo»: la locuzione latina invita a ricercare l’equilibrio tra estremi e dunque al di fuori dell’esagerazione). Dunque, in medio stat la via verso il sublime.

Tutti i riferimenti antichi di cui sopra non li ho scelti a caso: il piacere stava in noi, come Giano bifronte, prima ancora che fossimo homo-sapiens. E anche oggi è alla base delle nostre principali decisioni: da quelle che riguardano la lista della spesa a quelle in campo economico, come è illustrato dal concetto di “economia comportamentale”. Conoscere il piacere, oltre che assaporarlo, ci permette di gestirlo. Di essere insomma buoni romagnoli, capaci di intavolare formaggi, salumi e il migliore dei Sangiovesi senza affaticare il fegato o magari procurarsi malattie cardiovascolari.

Per conoscere meglio il piacere, va saputo che il nostro cervello contiene un circuito chiamato, per l’appunto, «circuito del piacere» e ha una funzione evolutiva: serve a farci non dimenticare le esperienze che in passato ci hanno procurato gratificazione. Come mangiare, per esempio, o fare sesso. Però e proprio su questo circuito, dove si innestano i meccanismi della gratificazione, si intercalano anche i sistemi della dipendenza.Ed è per questo che la virtus, via del sublime, in medio stat.

Forse i romagnoli non hanno bisogno di conoscere la biochimica per non incorrere nella dipendenza, altrimenti ci saremmo estinti da generazioni. Va saputo però – e ciò non vale solo per i fruitori del divertimento rivierasco – che le occasioni di esposizione a sostanze allo stesso tempo piacevoli e nocive, sulla tavola come nei locali del divertimento, sono aumentate nel tempo.

Casi gravissimi come quello della tredicenne finita in coma etilico ieri a Rivabella sono comunque episodi limite, qui vogliamo parlare dei comportamenti generalizzati, quelli appunto che denotano una “cultura”. Ma per evitare un rimpallo di responsabilità tra istituzioni, commercianti e clienti è allora necessario creare una «Cultura del piacere», che comprenda anche alcune pillole di neuropsicologia che siano alla portata di tutti.

Si farebbe dunque un servizio al cittadino, per esempio, riportando i dati dell’annuale bilancio nazionale su “L’uso e l’abuso di alcol in Italia” pubblicato dall’ISTAT, che rileva come l’età tra i 18 e i 24 anni sia quella in cui si ha il picco del consumo di alcolici diversi, da vino e birra sino ad aperitivi, amari e superalcolici. È un età quella, in cui lo sviluppo del cervello – tra i principali bersagli dell’alcool – è vertiginoso: sarebbe giusto “annaffiare” questo organo in crescita con stimoli che non siano solo a base di alcool.

La tossicologia ci insegna che quantità sicure di alcool non esistono: il rischio zero c’è soltanto a esposizione zero. Tuttavia, è nella misura di due unità alcoliche al giorno per l’uomo e una per la donna e l’anziano (una unità coincide circa con un bicchiere di vino) che si può considerare basso il rischio di ammalarsi. Insomma, il range è stretto. Per esemplificare, contiamo che una “sbornia” di quelle che si prendono in certi party dove l’esposizione ad alcool è potenzialmente illimitata, ci porta via circa 100 mila neuroni, quota paragonabile a quella che si perde in un’intera giornata di vita.

La «Cultura del piacere» ovviamente la si coltiva scegliendo non solo il consumo d’alcool ma, come si diceva, anche qualità e quantità dei cibi a tavola.

Sono cinque i fattori di rischio legati alla Sindrome metabolica: fattori di rischio che espongono a sovrappeso e a obesità, che aumentano le probabilità di malattie cardiache ed altri problemi di salute come diabete e ictus.

Dunque: giro vita, da tenersi tra gli 80 e i 99 cm per l’uomo e tra i 70 e gli 89 nelle donne, per mantenere il rischio basso; colesterolo totale, sotto al valore di riferimento di 200 mg/dl; trigliceridi nel sangue, da tenere sotto al valore di riferimento di 200 mg/dl; pressione, a seconda dell’età e delle indicazioni del medico; livelli di glicemia, a seconda dell’età e delle indicazioni del medico.
Questi cinque fattori di rischio, che si possono monitorare con le ordinarie analisi di sangue e urine e misuratori di pressione, non agiscono tra loro in sommatoria, bensì in maniera esponenziale; dunque due o più fattori fuori controllo rappresentano un aumento del rischio di mortalità superiore alle dieci volte.

Al netto di tutto non sarà l’abbuffata domenicale in trattoria a mandarci in cardiologia: la “virtus” sta nella giusta misura. La «Cultura del piacere», nella terra del piacere, che sa ben amalgamare i suoi più preziosi ingredienti per esperienze né mai troppo dolci né mai troppo salate, sia allora lo statuto morale del benessere. Proprio quel benessere che da romagnoli abbiamo sempre saputo dispensare.

Marco Pivato

Marco Pivato – Farmacista e scrittore marco.pivato@delficomunicazione.it

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