La recente sentenza della prima sezione penale della Corte di Cassazione, n. 8108/2018, è intervenuta sul controverso tema della liceità del saluto romano, confermando l’assoluzione di due soggetti, militanti di estrema destra, imputati del reato di concorso in “manifestazioni fasciste” previsto all’art. 5 della legge “Scelba” (l. n. 645 del 1952).
In data 29 aprile 2014 gli imputati avevano partecipato ad una pubblica commemorazione funebre organizzata dal Partito “Fratelli d’Italia” nella quale venivano compiute manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, quali la chiamata del presente, il saluto romano e l’esposizione di uno striscione inneggiante ai camerati caduti e di numerose croci celtiche. In concorso con altri soggetti non identificati, i due imputati partecipavano alla chiamata del presente e facevano il saluto romano. I due – previa identificazione della Questura di Milano – venivano imputati del reato di concorso in “manifestazioni fasciste” ex art. 5, l. n. 645 del 1952 (legge “Scelba”). Il processo di merito si è concluso con una sentenza di assoluzione della Corte d’Appello di Milano. L’assoluzione è poi stata confermata dalla Corte di Cassazione, la cui sentenza ha destato un certo scalpore mediatico e reazioni contrastanti.
E’ quindi necessario mettere un po’ di ordine in questa nebulosa di reazioni, con un’analisi strettamente giuridica – scevra, dunque, da considerazioni politiche.
In particolare si tenterà di dare risposta a tre domande:
- è vero, anzitutto, che la Cassazione ha dichiarato la piena liceità del saluto romano?
- L’Italia è l’unico Paese a prevedere una disciplina restrittiva in materia di manifestazioni tipiche dei movimenti nazi-fascisti?
- E’ vero che la norma che incrimina il saluto romano è in contrasto con l’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e del cittadino (CEDU)?
Partiamo col dare risposta al primo interrogativo: in molti, infatti, si sono posti il problema se dopo questa sentenza il saluto romano sia sempre e comunque lecito; alcuni, addirittura, si sono chiesti se non si tratti forse di un “reato impossibile” quello previsto dall’art. 5 della legge “Scelba”.
Ebbene, la sentenza n. 8108 del 2018 della Suprema Corte, che conferma la sentenza di assoluzione degli imputati respingendo il ricorso del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano, si fonda su un ragionamento giuridico saldamente radicato nella precedente giurisprudenza: sia quella di legittimità (ossia quella della Corte di Cassazione), che quella costituzionale.
La Cassazione ha infatti ribadito quanto già affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 74 del 1958, ossia che la disposizione incriminatrice di cui all’art. 5 della legge “Scelba” costituisce l’immediata applicazione della dodicesima disposizione transitoria e finale della Costituzione, la quale vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista.
La Carta costituzionale prevede precetti che, anche quando hanno un valore cogente e non meramente programmatico, necessitano comunque di una applicazione legislativa. L’art. 5 della l. 645 del 1952 – che vieta e punisce le “manifestazioni fasciste” – costituisce uno strumento normativo tramite il quale viene attuato l’intento del costituente. Non si tratta, tra l’altro, dell’unica norma tesa a trasporre nel diritto penale il precetto della dodicesima disposizione transitoria e finale: si pensi, ad esempio, al reato di “apologia del fascismo” che punisce le condotte di esaltazione del fascismo.
Una volta individuato il fondamento dell’art. 5 della legge “Scelba” nella dodicesima disposizione transitoria e finale, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che tale norma deve essere interpretata in chiave “teleologica”, ossia tenendo conto dello scopo che ha mosso il legislatore costituente. Come ci ricorda la Corte Costituzionale con la sentenza n. 74 del 1958, essa è volta ad impedire la ricostituzione del disciolto partito fascista al fine di preservare l’ordinamento democratico. Ebbene, in quest’ottica non è pensabile – aggiungono sempre i giudici costituzionali – che debbano essere vietati e sanzionati esclusivamente gli atti finali e conclusivi della riorganizzazione; al contrario la dodicesima disposizione transitoria e finale intende vietare e colpire tutti quegli atti e fatti idonei ad essere ritenuti un potenziale antecedente causale rispetto alla ricostituzione del partito fascista. In sostanza, è legittima non solo la sanzione del risultato finale – ossia la ricostituzione del partito fascista –, ma anche i passaggi che necessariamente lo precedono e rendono possibile il raggiungimento di quel risultato.
Nella fondamentale pronuncia del 1958 – che qui si ripercorre e che è stata pienamente accolta da tutta la successiva giurisprudenza della Corte di Cassazione, compresa la sentenza 8108 del 2018 – la Corte Costituzionale ha poi affrontato un passaggio successivo. Posto che l’art. 5 della legge 642/1952 (legge Scelba) incrimina le manifestazioni del disciolto partito fascista tenute nel contesto di pubbliche riunioni (com’è una commemorazione in un cimitero), qual è – si chiede la Corte – il confine tra divieto penale e libertà di manifestazione del pensiero? In sostanza: se da una parte vi è l’esigenza costituzionalmente tutelata di proteggere l’ordinamento democratico e vietare la ricostituzione del disciolto partito fascista mediante una sanzione penale, dall’altra vi è pur sempre il fondamentale diritto di libera manifestazione del pensiero, sancito dall’art. 21 Cost. Come si coniugano queste esigenze, entrambe costituzionalmente tutelate?
Il tema è quello del bilanciamento dei principi costituzionali. Ogni qualvolta si realizzi un conflitto tra valori entrambi sanciti in Costituzione – quindi di pari gerarchia – è necessario operare un bilanciamento, mediante il quale ponderare quale dei due debba prevalere senza che l’altro soccomba del tutto. In sostanza: se uno deve necessariamente prevalere, l’altro non può essere annichilito.
Il compromesso raggiunto dalla Corte Costituzionale sta nel dire che non qualsiasi “manifestazione fascista” – dunque, per fare un esempio, non qualsiasi saluto romano – costituisce reato; integrano il reato di “manifestazioni fasciste”, solo le condotte che, tenute in riunioni pubbliche ed indipendentemente dal numero degli agenti, siano idonee a concretizzare il pericolo che la dodicesima disposizione transitoria e finale della Costituzione intende evitare: ossia il pericolo della ricostituzione del partito fascista. Poiché a tale risultato si può giungere anche mediante manifestazioni pubbliche capaci di impressionare e/o suggestionare le folle, raccogliere consensi, generare nuovi proseliti ed aderenti al progetto ricostitutivo, quelle manifestazioni – quei saluti romani, per rimanere nell’esempio – sono da considerare penalmente sanzionabili ex art. 5 l. 645/1952 (legge Scelba).
Questo insegnamento della Corte Costituzionale è stato pienamente accolto dalle pronunce successive della Corte di Cassazione, compresa la sentenza della prima sezione penale n. 8108 del 2018. In quest’ultima occasione i giudici di legittimità hanno ribadito, sulla scorta di quanto appena ricordato, che il reato di “manifestazioni fasciste” è un reato “di pericolo concreto”: ne consegue che sono punibili solo quelle manifestazioni tipiche del partito fascista che in concreto configurano il pericolo di una (indesiderata e vietata) ricostituzione del partito fascista.
La sentenza in esame, aggiungono poi i giudici di legittimità, conferma l’assoluzione ottenuta dai due imputati in sede di appello per un semplice motivo: il giudizio di Cassazione non investe la valutazione dei fatti, ma solo la corretta interpretazione delle norme da parte dei giudici di merito.
Secondo la Corte di Appello di Milano, dato il peculiare contesto di fatto nel quale si era svolta la vicenda, quegli eventi non realizzavano in concreto il pericolo di ricostituzione del partito fascista. Non vi era nessun pericolo concreto, ad avviso della Corte d’Appello di Milano. La Cassazione, dato atto che il giudice di merito aveva ben applicato il principio di diritto, non poteva dare una diversa lettura degli eventi ed ha quindi dichiarato il ricorso contro la sentenza di assoluzione inammissibile.
Siamo a questo punto in grado di rispondere al primo interrogativo che ci eravamo posti, ossia se la pronuncia della Cassazione abbia in qualche modo stabilito che – come in molti hanno sostenuto – il saluto romano sia diventato pienamente lecito.
Alla luce di quanto detto, la risposta è assolutamente negativa: non è vero che il saluto romano è diventato, così all’improvviso, lecito! La sentenza n. 8108/2018 della Cassazione non ha infatti introdotto nessuna novità, si è limitata a ribadire che il saluto romano costituisce reato ogni volta che viene fatto in un contesto ritenuto tale da ingenerare il pericolo di ricostituzione del partito fascista.
Passiamo ora a rispondere alla seconda domanda: ci siamo chiesti se l’Italia sia l’unico Paese a prevedere una sanzione penale per gesti quali il saluto romano. Anche qui la risposta è negativa: sono tanti gli ordinamenti stranieri che sanzionano penalmente questi episodi, tutti animati dall’intento di tutelare l’ordinamento democratico.
Merita una breve considerazione la disciplina prevista dall’ordinamento tedesco. La Germania ha molto lavorato sulla rielaborazione del suo passato, data le tragicità degli eventi causati dal nazionalsocialismo.
Questa rielaborazione si è svolta a livello culturale ed educativo, ma anche sul piano del diritto penale. Ed infatti il paragrafo 86a del StGB (il codice penale tedesco) prevede una norma incriminatrice parallela a quella dell’art. 5 della legge Scelba: viene infatti punito (con pena detentiva fino a tre anni) l’utilizzo di “segni di organizzazioni incostituzionali”.
Il secondo comma del § 86a StGB esplicita quali siano questi segni, riferendosi a: “Bandiere, stemmi, uniformi, slogan e forme di saluto”. Tra i segni vietati e penalmente sanzionati rientra quindi anche il cd. Hitlergruß, ossia il saluto nazista.
E’ interessante notare che, se da un lato la formulazione della norma è simile a quella italiana, dall’altro la sua interpretazione ed applicazione da parte dei giudici tedeschi è assai più severa. Infatti, la giurisprudenza tedesca ritiene che il semplice saluto nazista fatto in occasione di riunioni pubbliche di qualsiasi tipo – di per sé – configuri un reato. La logica è che se il saluto nazista costituisce un pericolo per l’ordinamento democratico, non è necessario che questo pericolo sia concretamente realizzato. Come abbiamo già detto, in Italia la condotta di chi fa il saluto romano configura un reato solo se si realizza un pericolo concreto di ricostituzione del partito fascista – si tratta dunque di un reato di “pericolo concreto”. Al contrario, in Germania lo stesso reato è considerato reato di “pericolo astratto”.
Ecco che allora emerge come il nostro ordinamento non sia il solo a sanzionare i segni tipici del fascismo, ma addirittura esso prevede un trattamento assai più mite rispetto a quello di altri Paesi.
Veniamo infine al terzo interrogativo: vi è chi sostiene che la sanzione penale del saluto romano costituisca una violazione dell’art. 10 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del cittadino (CEDU), posto a tutela della libertà di espressione.
La CEDU è una convenzione internazionale stipulata a Roma nel 1950 tra una serie di Paesi appartenenti all’Europa geografica: infatti, ne sono parte non solo i Paesi Membri dell’Unione Europea, ma anche la Russia e la Turchia. Questa convenzione è quindi un accordo nato parallelamente al progetto comunitario europeo, ed è animata dall’intento di tutelare nei territori degli Stati aderenti i diritti fondamentali della persona umana. Si badi che questo accordo internazionale è stato stipulata cinque anni dopo la fine degli orrori della seconda guerra mondiale, in un tempo in cui le ferite di quelle atrocità erano ancora vive. Da allora, la CEDU rappresenta un fondamentale presidio posto a difesa dei diritti di tutti noi e, a differenza di altre convenzioni internazionali, poi, ha avuto nel corso del tempo un impatto piuttosto rilevante: si pensi alle condanne che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha inflitto al nostro Paese per le condizioni delle carceri italiane, oppure per i fatti del G8 di Genova.
La Corte, istituita dalla stessa Convenzione ed il cui compito è quello di vegliare sul rispetto da parte degli Stati dei diritti in essa affermati, si è espressa in un caso simile a quello sul quale è intervenuta la Cassazione nella sentenza n. 8108 del 2018.
La decisone della Corte riguardava un comico francese – Diedonné – che aveva compiuto la quenelle, un gesto dichiaratamente antisemita da lui inventato, e che i giudici francesi avevano ritenuto configurasse un reato. Diedonné era stato quindi condannato da un tribunale francese,
Ebbene, il comico si era appellato alla Corte europea dei diritti dell’uomo sostenendo che quella condanna penale costituisse una illegittima limitazione della sua libertà di espressione del pensiero.
La Corte ha invece affermato che la quenelle, ossia questo particolare gesto con finalità antisemite, non fosse in alcun modo tutelato dall’art. 10 della Convenzione, perché il comico aveva fatto un uso distorto del diritto di libera manifestazione del pensiero (parla infatti di “abuso del diritto”) .
Ecco come anche il nostro terzo interrogativo trova una risposta negativa: la sanzione penale del saluto romano – che certo è più esplicito della quenelle, il gesto antisemita inventato dal comico francese – non è affatto in contrasto con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e del cittadino e con il suo art. 10, posto a presidio della libertà di espressione del pensiero.
Siamo a questo punto giunti al termine della nostra analisi della recente sentenza della Cassazione intervenuta sul saluto romano. Come è emerso, nulla di quanto affermato dai giudici di legittimità è in contrasto con la precedente giurisprudenza nazionale e la normativa sanzionatoria è pienamente in linea con gli ordinamenti degli altri Paesi e con le Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia. Anzi, a fronte delle recrudescenze di fenomeni nazi-fascisti in vaste aree europee, appare oggi opportuno una rivisitazione della normativa italiana (l. 645 del 1952 e successive modifiche), mediante l’introduzione di un reato di pericolo astratto sul modello tedesco.
Infine, va presa coscienza del fatto che il diritto penale non può essere utilizzato come il principale ed unico strumento di correzione delle distorsioni sociali che colpiscono un Paese democratico. Il fascismo, come dice Umberto Eco nel suo bel libro intitolato “Il fascismo eterno”, non è finito con la fine del ventennio, ma vive ancora: ora covando sotto le ceneri, ora ripresentandosi sulla scena pubblica.
Ebbene, in questo contesto così complesso ed in continua evoluzione, il diritto penale non può che giocare un ruolo marginale nell’azione di arginamento del fascismo. Le sole aule di tribunale non bastano a tutelare la nostra democrazia: il diritto penale interviene quando il danno è già stato compiuto, e diversamente non potrebbe essere d’altronde; ci sono altri luoghi, e la scuola è il primo di questi, posti a quotidiano presidio della Costituzione e della democrazia.
Studio legale Ghinelli
Dott. Gianni Ghinelli
Avv. Maurizio Ghinelli