Mercoledì 14 febbraio è uscito nelle sale italiane The Shape of Water – La forma dell’acqua (119’) del regista messicano Guillermo del Toro, che dopo aver ricevuto il Leone d’oro a Venezia ha ricevuto ben 13 candidature agli Oscar, comprese miglior film e miglior regia.
Un grandissimo successo critico e commerciale che arriva dopo anni e anni di aspettative disattese, in cui del Toro è stato sempre quello, fra i registi messicani amati dall’Accademia (Iñárritu e Cuarón), a rimanere a bocca asciutta. E proprio da questo senso di relativa “frustrazione” (intendiamoci: del Toro era e rimane, al di là degli Oscar, un grandissimo regista) sembra muovere quest’opera, nella quale l’autore guarda cinicamente, come non mai, all’ambita statuetta. L’esatto contrario, insomma, di Chiamami col tuo nome del nostro Luca Guadagnino, nato quasi per caso e senza alcuna pretesa, ma comunque candidato a miglior film.
Siamo in piena Guerra fredda, nella Baltimora degli anni Sessanta, dove essere un nero, un omosessuale, una disabile (o un mostro marino), voleva dire essere emarginato e discriminato ancor più di oggi. È proprio la condivisione di questa comune condizione subalterna che porta due donne delle pulizie, la muta Elisa e l’afroamericana Zelda (rispettivamente Sally Hawkins e Octavia Spencer, entrambe candidate all’Oscar), e il pittore gay Giles (Richard Jenkins, anche lui candidato a miglior attore non protagonista) a coalizzare le proprie forze contro il violento Colonnello Strickland, che rappresenta il machismo e l’ipocrisia della società americana.
A muovere tutto, come sempre, c’è l’insolito amore che lega Elisa a un mostro marino prelevato dal Sudamerica, che viene ora studiato dagli scienziati americani, e che i russi vorrebbero strappargli.
Del Toro ci mostra, forse troppo velocemente, la costruzione di un sentimento sospeso a metà tra la fiaba e il musical, che ha però il merito di sottolineare almeno due temi importantissimi, ma ancora oggi troppo spesso ignorati: innanzi tutto quello di considerare la persona che si ha davanti semplicemente per quello che è, prima di etichettarla subito come handicappata, alterando la nostra ebete voce da bambini imbecilli; in secondo luogo la sessualità dei diversamente abili, che dovrebbe essere un aspetto centrale della loro vita esattamente come per noi che ci definiamo ‘normali’, e che spesso, invece, finisce per essere soppresso e ignorato da chissà quali taboo moralisti e bigotti.
La grandezza de La forma dell’acqua sta nel trattare con efficacia il tema del riscatto degli emarginati, in cui potrebbe esserci anche un velato autoriferimento, da parte di del Toro, a una carriera che non sempre ha raccolto quanto seminato. E quindi, giustamente, il regista messicano ha pensato bene, stavolta, di seminare pensando innanzi tutto alla raccolta, mischiando nel calderone molti ingredienti (forse troppi) di sicura riuscita: King Kong, La bella e la bestia, Il favoloso mondo di Amélie, Il fantasma del palcoscenico, Il mostro della laguna nera, La La Land.
Per ottenere un grande film, ovviamente, il citazionismo non basta. Occorre saperli tenere insieme, questi modelli, e del Toro dimostra di saperlo fare molto bene grazie a una regia puntuale, esatta, calcolata nei minimi dettagli, che si candida con autorevolezza ad essere premiata agli Oscar; Nolan permettendo.
Per quanto riguarda le altre (numerosissime) nomination, credo che La forma dell’acqua molto probabilmente porterà a casa, innanzi tutto, il premio per la migliore attrice, data la splendida performance di Sally Hawkins, che fu candidata come miglior attrice non protagonista anche nel 2014, con Blue Jasmine di Woody Allen. Il film di del Toro lotterà fino all’ultimo, inoltre, per la miglior sceneggiatura; ma credo (e spero) proprio che, invece, non vincerà l’Oscar come miglior film, date le altre pellicole in gara.
Edoardo Bassetti