Mi ha colpito il pezzo di Nando Piccari di ieri dal titolo “Il salto del quaglione” perché, magari mi sbaglio, ho percepito una vena di malinconia che, per un corsivista di calibro come lui, è una cosa non da poco.
Contro la malinconia può essere utile mettere a fuoco il vero problema di Renzi.
Lo dico fin da quando ero ancora iscritto al PD con forti dolori all’addome: il problema sono quelli che continuano a definire “il meglio” o “il meno peggio” (che in politica è ancora più grave) uno che ha vinto una volta (le Europee), poi ha perso tutto ciò che ha tentato: le elezioni in due capitali d’Italia (Roma e Torino); il grande Referendum costituzionale; le regionali in Sicilia. Per completare l’opera Renzi con il Job Act ha attaccato il cuore del suo stesso elettorato, la famosa classe operaia. Incerto sulla completezza dell’operato, ha anche pensato di fare una legge elettorale su misura sulla coalizione di Berlusconi, l’unica, ovviamente, che può sperare di raggiungere il 40% e la maggioranza assoluta.
Un vecchio compagno, di quelli saggi, giorni fa si chiedeva se, fare una legge così, sia frutto di incompetenza istituzionale o di dolo.
E’ quindi legittimo chiedersi se definire “il meno peggio” Renzi, sia in ordine:
a) un richiamo in tono minore alla teoria del “migliore”, propria della nobile tradizione comunista italiana. La differenza è che Togliatti era uno che basava la leadership sulla capacità di analisi, non sul fatto che(forse) viene bene in televisione;
b) un atto di disperazione: siamo così messi male che afferriamo il salvagente anche se è sgonfio;
c) un gesto nihilista, o la va o la spacca, non pensando che “la spacca” vuol dire portare nel burrone un patrimonio organizzativo, una storia, perfino una speranza.
Per queste ragioni non me la prendo con Renzi, ma con quelli che hanno capito, che non possono non aver capito, ma non hanno avuto la forza o il coraggio di metterlo in un angolo e parlargli il linguaggio della verità. Parlo, per essere chiaro, dei dirigenti di alto livello del PD perché mi stupisce il loro inerme silenzio, come quello di essere arrivati alle soglie delle Regionali in Lombardia senza avere aperto un tavolo vero di confronto a sinistra, proprio come, a suo tempo, con Pisapia. Non c’era nulla da inventare!
Pensavo che nella comunità politica della sinistra italiana, così riflessiva, spesso così addirittura pedante, non ci fosse spazio per le scorciatoie, per il prevalere delle apparenze sulla sostanza, per l’affidarsi a un leader nonostante le sue sconfitte. Non abbiamo bisogno di leader (“sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi” B. Brecht), abbiamo bisogno di pensiero in grado di cogliere i punti deboli del turbocapitalismo che sta diffondendo diseguaglianza e precarietà come nuova forma di dominio. Non sarà di certo la lista Grasso a risolvere questo problema epocale, ma almeno potrà essere una scintilla dalla quale forse accendere un nuovo fuoco.
Quasi nessuno ha notato che nella lista di Pietro Grasso (un pericoloso “gruppettaro”!) non ci sono richiami diretti alla tradizione comunista. Liberi e Uguali è piuttosto un richiamo al pensiero della cultura democratica europea, a quel bisogno di “eguaglianza nella libertà” su cui l’URSS ha fallito, su cui il PCI e direi anche una certa DC, hanno scritto pagine importanti a partire dalla costituzione firmata da Terracini.
Libertà e uguaglianza costituiscono l’asse su cui costruire almeno la resistenza alla spietata “lotta di classe” che le classi dominanti stanno conducendo. E, attenzione, sono inscindibili fra loro, libertà senza eguaglianza è solo il moderno “panem et circenses” su cui si basava il potere nell’antica Roma.
Giuseppe Chicchi