Inverno del 1466, una tiepida notte di gennaio. La cocca del Principe ha appena lanciato le cime verso le bitte di pietra d’Istria del porto. Da quasi tre anni Sigismondo era lontano da Rimini. Un fremito lo percorre, ritrova finalmente la città tanto amata, fra breve varcherà in silenzio il rivellino del Castello e sorprenderà nel sonno l’amata Isotta.
I palafrenieri hanno sellato il Preferito. L’animale, intravista la sagoma del Principe, lancia un nitrito, un saluto all’amico ritrovato che scuote il buio della notte sui moli del porto. Sigismondo sale a cavallo, allontana da sé il seguito pronto a condurlo in corteo verso il Castello. Preferisce ritrovare da solo la sua città, percepirne gli umori, ascoltare le voci delle bettole lungo il fiume, incrociare lo sguardo torvo degli ubriachi e dei ladri. L’animo è inquieto, combattuto fra il piacere del ritorno alle cose amate e il sentimento della sconfitta che da alcuni anni non lo abbandona.
L’impresa di Morea, la Crociata stracciona contro i Turchi di Maometto II, si conclude ancora con una sconfitta. Però è finalmente a casa.
“Qualcosa resta della mia grandezza”. Così pensa passando davanti al S.Francesco. Le forme classiche di pietra bianca, disegnate dall’Alberti, illuminano il buio della notte.
Attraversa l’antico Foro Romano, il Decumano, colmo di erbe cresciute fra le pietre, lo conduce nella piazza dell’Arengo, di lì intravede nell’oscurità la sagoma austera del Castello, della sua dimora. Il suo cuore di guerriero accelera il battito, lo aspetta il calore del morbido corpo di Isotta.
La notte è scura ma Sigismondo conosce quel percorso in ogni pietra. Avanza ansioso verso il Castello sollecitando il Preferito con un colpo di sperone a cui l’animale risponde accelerando il trotto.
D’improvviso, con un rumore sordo, il cavallo si rovescia in avanti sbattendo con violenza contro un ostacolo. Sigismondo cade violentemente a terra e, come da antica consuetudine della sua terra, lancia una bestemmia che incendia l’aria.
“Porca M……, che c….è successo?!”.
Si rialza borbottando, cerca nel buio la sua bestia caduta, l’aiuta a rialzarsi, si assicura che sia integra, l’accarezza sul muso tremante. Cerca a tentoni l’ostacolo che ha interrotto il ritorno a casa e trova strani ostacoli di pietra, alti giusto al garrese del cavallo.
“Muri sulla piazza d’armi del castello. Chi li ha costruiti, chi gli ha dato facoltà?”
Entra infuriato nella corte conducendo al morso la bestia che ancora ansima per la paura. Sveglia tutta la dimora gridando e bestemmiando, chiedendo che il colpevole gli sia condotto innanzi.
Nessuno, per prima Isotta, osa contraddirlo e il colpevole è presto indicato in Massimiano da Cesena.
“Mio Principe” – balbettò il malcapitato – Mi fu riferito di diaboliche macchine da guerra che ingegni al soldo del Duca di Urbino stavano progettando. Ho pensato, in tua assenza, di difendere il Castello. Tali macchine, veri carri corazzati, durante un assedio avrebbero portato l’insidia di uomini e bombe incendiarie fin sotto le mura della dimora. Così, aiutato dal geometra Andreuccio da S.Giuliano, ho fatto costruire gli ostacoli ispirandomi alle difese in uso nella lontana Frisia”.
Sigismondo, attento alle questioni militari, chiede dettagli sulle fantomatiche macchine e conclude che l’ottimo Massimiano sia stato vittima del caldo sole d’agosto. Ma dopo due anni di guerra in Morea, il suo animo é benevolo. Ride a lungo e conclude ad alta voce: ”Neppure fra seicento anni si potranno costruire macchine da guerra di tal fatta!”.
La sentenza fu emessa rapidamente, Massimiano e Andreuccio avrebbero trascorso i prossimi sei mesi distruggendo a colpi di piccone gli orrendi muretti che avevano circondato il Castello degradandolo palesemente da austero palazzo fortificato a “pan di zucchero” al centro di una torta al pistacchio persiano.
Rudens