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Intrusi in Adriatico, le responsabilità dell’uomo

Nel corso degli ultimi decenni si sta assistendo alla comparsa di specie animali e vegetali la cui provenienza è spesso riconducibile a mari lontani. Si tratta dell’intrusione di specie non indigene, estranee all’ambiente in cui sono arrivate. Specie “aliene” appunto o, se si vuole usare un termine più appropriato, specie “alloctone” (dal greco àllos altro e chthòn suolo/terra).

Il fenomeno riguarda quasi tutti i raggruppamenti floro-faunistici marini. Se si escludono i Rettili marini (Testuggini) e i Cetacei, negli elenchi delle specie in “viaggio” per i mari del mondo, sono compresi invertebrati e vertebrati così pure organismi unicellulari (microalghe, protozoi, batteri), virus e macroalghe.

Grazie a recenti ricerche mirate allo studio dell’intrusione di specie alloctone e ai lavori di catalogazione sostenuti dalla Commission Internationale pour l’Exploration Scientifique de la Méditerranée (CIESM- Principato di Monaco) sono state censite nel Mediterraneo 565 specie alloctone appartenenti a diversi gruppi vegetali e animali (132 vegetali, 25 Celenterati, 16 Briozoi, 141 Molluschi, 59 Anellidi, 60 Crostacei, 12 Ascidiacei, 120 Pesci), di queste oltre 200 sarebbero già presenti nei mari italiani. Una lunga lista di organismi soggetta a continui aggiornamenti. In questo Atlante ne segnaliamo una trentina, quelle repertate nell’Adriatico nord-occidentale.

È bene comunque evidenziare che da sempre avvengono spostamenti migratori di specie viventi sia sulla terraferma che nei mari. Si tratta in genere di processi relativi a poche specie e con tempi di “conquista” delle nuove aree mediamente lunghi. Le tendenze recenti paiono mostrare, al contrario, una indubbia accelerazione e nella quasi totalità dei casi il trasferimento avviene grazie all’uomo sia per scelta che per comportamenti involontari. Le attività commerciali che si avvalgono di trasporti via nave, l’acquacoltura, l’acquariofilia e le stesse attività di ricerca sono da annoverare tra le principali cause di questo processo.

Dei tanti volti della “globalizzazione” questo è forse quello meno conosciuto, ma nel contempo quello che meglio di altri evidenzia quanto sia determinante il contributo dell’uomo nella diffusione delle specie viventi che, opportunisticamente, sono così in grado di superare distanze e travalicare barriere ambientali e fisiche altrimenti invalicabili.

Una specie alloctona può non avere successo e soccombere o, al contrario, se trova condizioni favorevoli al suo sviluppo, e/o perché mancano i suoi antagonisti naturali che nei siti di provenienza ne regolavano l’espansione, può insediarsi assumendo in diversi casi un carattere invasivo. Come già accennato uno dei fattori causali è da attribuire all’importazione di specie di interesse commerciale per essere allevate in ambienti confinati.

Nel caso dell’Adriatico un evidente esempio ci viene fornito dalla Vongola verace filippina (Ruditapes philippinarum), un pregiato Bivalve immesso agli inizi degli anni ’80 (prima semina 1983) negli specchi lagunari del delta del Po. Oggi questa specie ha travalicato quegli ambienti e si rinviene in quasi tutto l’Adriatico.

vongola

Specie al contrario non importate per detti fini, ma egualmente presenti, sono rappresentate dai bivalvi Anadara inaequivalvis, Anadara transversa, Musculista senhousia e dal Gasteropode Rapana venosa. A parte la M. senhousia, la cui intrusione pare essere dovuta alle pratiche di vallicoltura (semina impura di R. philippinarum), negli altri casi il vettore è da attribuire ai trasporti marittimi. Non è un caso che i primi rinvenimenti di queste specie siano avvenuti nelle aree di mare prossime al porto di Ravenna, l’unico porto commerciale della Regione Emilia-Romagna. Si tratta in genere del trasporto di uova, stadi larvali, spore, organismi unicellulari che attaccati alle chiglie dei natanti o imbarcati attraverso le acque di zavorra sono in grado di sopravvivere per settimane prima di essere liberati nel nuovo sito. I mercantili che trasportano liquidi, le petroliere ad esempio, hanno l’esigenza di caricare acqua di zavorra per motivi di stabilità, questo avviene quando navigano vuoti o semivuoti. Acque imbarcate in genere nel porto di partenza, quella zavorra viene poi scaricata una volta raggiunta la destinazione.

Specie alloctone possono essere introdotte anche tramite pratiche collegate all’acquariofilia e alla ricerca. Dagli acquari pubblici e privati e dalle vasche ove si conducono attività sperimentali possono, per ragioni casuali, essere scaricate in mare frammenti vegetali e stadi larvali di organismi animali e lì insediarsi, proliferare e diffondersi. È il caso della Caulerpa taxifolia una macroalga finita per errore in mare. Le correnti marine e il trascinamento dovuto alle attività di pesca e agli ancoraggi ne hanno favorito la diffusione in vaste aree del Mediterraneo occidentale e centrale.

L’introduzione di specie alloctone in una determinata area può avere conseguenze imprevedibili. In alcuni casi la nuova specie può passare inosservata, soprattutto se non raggiunge alte densità, ma, nei casi ove questa condizione non si verifica, si possono avere guasti ambientali, danni economici e pericoli per la salute umana. Se una specie alloctona entra in competizione con le specie tipiche di una determinata area, può esercitare impatti negativi apportando cambiamenti nelle comunità e alterare la biodiversità e il funzionamento dell’ecosistema. Danni alle attività umane rivolte al mare e alle sue risorse possono derivare dalla comparsa di specie microalgali in grado di sintetizzare tossine e rendere pertanto pericolosa la produzione e la vendita incontrollata dei prodotti della molluschicoltura e della pesca. Associate a tali eventualità si possono, conseguentemente, verificare minacce alla salute umana. La presenza di microalghe tossiche può generare tossinfezioni alimentari nei consumatori di Bivalvi filtratori (mitili, vongole, ostriche, ecc.).

Tropicalizzazione

I cosiddetti “cambiamenti globali” attribuibili alla perdurante anomalia climatica si stanno traducendo in sorprendenti mutamenti nelle distribuzioni areali di molte specie animali sia terrestri che marine. Per quanto concerne i mari e gli oceani da tempo si susseguono segnalazioni sugli effetti conseguenti all’evolversi di tali condizioni. Nel Mediterraneo si sta assistendo a una progressiva intrusione di specie ittiche provenienti da mari tropicali o subtropicali. Anche se il fattore determinante è da attribuire all’aumento della temperatura, pare che altre variabili abbiano contribuito al consolidamento di tale tendenza. Il Canale di Suez, il cui escavo si è concluso nel 1869, costituisce una delle porte attraverso la quale transitano pesci provenienti dal mar Rosso e dall’Oceano Indiano.

Il processo di intrusione di specie provenienti da aree marine tropicali o subtropicali si sta verificando in maniera significativa anche attraverso lo stretto di Gibilterra, uno sbocco che al contrario del canale di Suez ha da sempre costituito continuità con l’Oceano Atlantico. In questo caso le specie migranti provengono dall’area sahariana e dalla regione ibero-marocchina. Anche in questo caso l’innalzamento termico delle acque ha rappresentato il principale fattore causale. La stima delle specie ittiche sino ad ora emigrate dall’Atlantico sono una trentina.

Meridionalizzazione

Oltre al fenomeno della tropicalizzazione, si stanno verificando processi di redistribuzione di specie autoctone mediterranee. Anche in questo caso gli incrementi termici delle acque pare abbiano un ruolo fondamentale. Di fatto si sta assistendo a una sorta di migrazione di diverse specie ittiche dalla fascia meridionale del Mediterraneo, quella che bagna il Nord Africa, verso le aree settentrionali del bacino. Le mutate condizioni termiche favoriscono lo spostamento verso gli areali più settentrionali di specie ittiche termofile (amanti delle acque calde), in mari per loro inusuali fino a pochi decenni fa. Questo fenomeno viene chiamato “meridionalizzazione”.

Chi va e chi viene

Alle isole Baleari alcune specie sarebbero scomparse o si sarebbero fortemente rarefatte, tra queste il Gattopardo (Scyliorhinus stellaris) e il Bocca d’oro (Argyrosomus regius), altre avrebbero incrementato le loro presenze quali il Pesce palla liscio (Sphoeroides pachygaster), la Bavosa crestata (Scartella cristata) e il Sarago faraone (Diplodus cervinus), mentre sono comparse nuove specie provenienti dalla piattaforma continentale nord-africana, è il caso della Cernia bianca (Epinephelus aeneus), del Lobate (Lobotes surinamensis) e del Carango ronco (Caranx rhonchus).

Nel Tirreno meridionale si sono verificate espansioni areali del Pesce balestra (Balistes capriscus) e di numerose specie di Carangidi poco frequenti se non rari fino agli anni ’80, tra questi il Carango mediterraneo (Caranx crysos) e il Carango cavallo (Caranx hippos).

Nell’alto Tirreno e nel Ligure vengono registrate presenze significative del Barracuda boccagialla (Sphyraena viridensis) e della Donzella pavonina (Thalassoma pavo), oltre a un significativo incremento della Ricciola (Seriola dumerili).

Nell’alto Adriatico una analoga condizione viene da diversi lustri osservata e seguita. Da un lato si è registrato un decremento nei popolamenti di Sardina (Sardina pilchardus), dello Spratto (Sprattus sprattus) e dello Sgombro (Scomber scombrus), specie che prediligono acque fresche, al contrario specie termofile stanno manifestando presenze superiori alla norma; tra queste l’Alaccia (Sardinella aurita), la Lampuga (Coryphaena hippurus), la Ricciola (Seriola dumerili), la Leccia (Lichia amia), la Palamita (Sarda sarda), il Pesce serra (Pomatomus saltatrix) e il Barracuda boccagialla (Sphyraena viridensis). La Donzella pavonina (Thalassoma pavo) viene segnalata come abbondante nell’Adriatico centrale. Significativo il ritrovamento nell’Adriatico settentrionale (costa emiliano-romagnola) di giovanili di Barracuda boccagialla, condizione che lascerebbe intendere che questa specie si è stabilmente insediata e si riproduce da alcuni anni anche in queste aree.

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La biodiversità

Il termine “biodiversità” si afferma in occasione della Conferenza mondiale di Rio de Janeiro nel 1991. Nel dibattito generale sui grandi temi riguardanti il futuro del pianeta, accanto a problematiche quali l’effetto serra, il buco dell’ozono, la deforestazione, la gestione dei rifiuti, la produzione di sostanze inquinanti e altre ancora fece breccia un’urgente necessità, quella di conservare la biodiversità. In seguito diverse saranno le Conferenze finalizzate a matrici ambientali più settoriali, tra queste va ricordata quella di Jakarta (Indonesia) nel 1995 ove vengono dettati i criteri di tutela della biodiversità nell’ambiente marino e costiero, undici anni dopo, nel 2006 a Curitiba (Brasile), si definiscono le linee guida per la conservazione della biodiversità nelle isole.

Qual è esattamente il significato del termine “biodiversità”? Rappresenta in primo luogo l’abbondanza delle specie viventi che popolano un determinato ambiente. Se si considera il fattore di scala si può parlare dell’intera biosfera, di una determinata regione biogeografica, di un particolare ecosistema, di un habitat o di una nicchia ecologica.

Nel focalizzare l’attenzione sugli oceani è bene ricordare che tra la superficie e il fondo vi sono oltre un miliardo di chilometri cubi di acqua, 4/5 dei quali sono compresi nella parte profonda. Tutta quell’acqua è popolata da esseri viventi e solo una piccola frazione di quel volume è stata esplorata.
La tutela della biodiversità costituisce un’inderogabile necessità. Mantenere un buon livello di funzionalità degli ecosistemi significa garantire prerogative e servizi essenziali per la vita sulla terra. Dette peculiarità riguardano necessità irrinunciabili; basti pensare al cibo, all’ossigeno che respiriamo, alla formazione dei suoli, al riciclo dei nutrienti, alla produzione di farmaci, al legname e tante altre risorse.

Quali sono i fattori in grado di conservare o depauperare la diversità biologica? Quesito complesso ed estremamente articolato; un grado inalterato di biodiversità potrebbe corrispondere a quello del tempo “zero”, vale a dire quello di un ambiente incontaminato, per nulla sfruttato dall’uomo o affetto da ricadute remote di origine antropica (apporto di inquinanti attraverso l’atmosfera o le acque). Da tale presupposto emerge una prima difficoltà, quella di individuare, ai giorni nostri, un ambiente inalterato. La progressiva occupazione di terre e la conquista dei mari ha assunto nell’ultimo secolo una tendenza esponenziale, e non pare vi siano nel presente e nel prossimo futuro segnali che lascino preludere a comportamenti virtuosi capaci di invertire questa condizione. L’aumento della popolazione mondiale, la ricerca spasmodica di risorse minerali e alimentari, l’incremento dei traffici via terra e mare e la povertà sono solo alcune di quelle variabili che ci indicano quanto sia ardua la sfida che ci aspetta nel riuscire a garantire uno sviluppo realmente sostenibile.

Le cause capaci di erodere la diversità biologica sono molteplici e nella quasi totalità dei casi conseguenti all’uso che l’uomo fa del territorio e delle risorse naturali. Una pressione spesso non responsabile e per nulla rispettosa dei cicli e dei tempi biologici necessari al ripristino delle biomasse consumate. Parlando di mare potremmo tra i comportamenti non certamente virtuosi citare l’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche, l’immissione di sostanze inquinanti nei mari e negli oceani, i cambiamenti climatici indotti dall’uomo, un’eccessiva pressione antropica sulle coste, l’intrusione di specie aliene. Invertire la rotta, o perlomeno mitigare tale tendenza vuol dire contrastare le richiamate cause; definire concrete politiche per un responsabile sfruttamento del mare e delle sue risorse, istituire aree marine protette, ridurre o azzerare l’inquinamento da sostanze pericolose, definire strategie di Gestione integrata delle zone costiere, ridurre l’immissione di gas serra nell’atmosfera.

Attilio Rinaldi

Attilio Rinaldi

L’ultima checklist della fauna marina presente nei mari italiani, censimento curato dalla Società Italiana di Biologia Marina su incarico del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, riporta al 2005 un contingente di 10.313 specie. Se si confronta questo valore con le 9.309 rilevate nel precedente censimento (1994), emerge che più di mille nuove specie sono state registrate in soli 11 anni. Da questo dato ben si comprende quanto sia ancora aperta la questione legata alla definizione numerica delle specie animali presenti nei nostri mari (senza parlare di quelle vegetali). Alcune classi in particolare, tra tutte quella dei Policheti, i vermi marini che popolano i fondali, sono ben lungi dall’essere censiti in maniera esaustiva. Quindi un lavoro complesso che richiederà, oltre all’impegno di quei ricercatori che si dedicano alla tassonomia ed allo studio della biologia marina, risorse finanziarie ed anni di lavoro.

Volendoci calare nella realtà biologica della fascia costiera dell’Adriatico nord-occidentale, va innanzitutto evidenziato che l’alto Adriatico è, al contrario di quanto erroneamente si pensa, un mare ricco di vita e con un’elevata produttività. Condizioni che pongono questo mare tra i più pescosi del Mediterraneo. La biodiversità nella fascia di mare costiera si mantiene su valori mediamente elevati. Al tipico ambiente con fondale sabbioso si è sovrapposta negli ultimi 50 anni una variabile del tutto artificiale rappresentata dalle barriere frangionda. Costituite da manufatti rocciosi, e prendendo come esempio il caso dell’Emilia-Romagna, queste sono oggi disposte su quasi la metà della linea di costa. In tempi relativamente brevi detti artificial reef sono stati colonizzati da specie tipiche degli ambienti rocciosi. L’artificiosità di tali strutture ha, di fatto, aumentato l’opzione ambientale attraverso l’inserimento di un nuovo habitat e un significativo incremento delle componenti floro-faunistiche.

Dott. Attilio Rinaldi
Presidente
FONDAZIONE CENTRO RICERCHE MARINE
Viale Vespucci, 2  –
47042 – Cesenatico (FC) – Italy

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