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Vittorio Servedio, il Charles Bronson di Rimini maestro di ginnastica e di gioia

Di ginnastica artistica non si interessa quasi nessuno nel nostro paese calciomane. Siamo provinciali, xenofili, campanilisti, parliamo di sport (il calcio) attraverso una cascata di iperboli demenziali; tutto è dilatato, ingigantito, tanto che viene da chiedersi se non siamo andati oltre il limite consentito all’incretinimento nazionale.

Vittorio Servedio, riminese, è stato un buon ginnasta, tanto da arrivare a vincere il Campionato Italiano a squadre, categoria junior nel 1971. La sua formazione atletica si era compiuta sotto lo sguardo attento di quel vero uomo di sport che è Romano Neri, il figlio del leggendario Romeo. Fu un buon ginnasta senza essere campione, anche se, parecchi successi costellano la sua non lunghissima carriera, conclusasi, allorché entrò a far parte del corpo dei Vigili del Fuoco, dove tutt’ora presta servizio.

Nel 1984, iniziò ad insegnare il suo sport ed è stato soprattutto sotto questa veste che, Vittorio Servedio ha espresso il meglio di sè. Nella scalcinata, fatiscente palestra posta sotto le gradinate dello Stadio Comunale, messo insieme un piccolo gruppo di bambine, appartenenti alla società “Gemmani”, questo maestro dolce, buono, estremamente attento e sensibile ha cominciato a predicare il proprio vangelo sportivo.

In un ambiente dove la vittoria è ricercata con tutti i mezzi, dove l’atleta deve categoricamente esprimere il meglio del proprio potenziale, dove ogni passaggio, ogni esercizio si costruisce a furia di allenamenti, di urla, di lacrime e di schiaffoni, Vittorio era riuscito a creare un’isola felice. La palestra era diventata un luogo di divertimento e di gioia. Lo scopo dell’allenamento sportivo, per lui, era quello di raggiungere la compiuta efficienza di rendimento fisico con il controllo sereno delle armonie muscolari, con la somatizzazione di un’esperienza ludica, vissuta nell’interiorità. Era l’affermazione di se stessi tramite l’agire del corpo.

Tutto ciò, nel rispetto assoluto delle sue giovani allieve che, vedevano in questo uomo dal fisico forte, vagamente assomigliante all’attore cinematografico Charles Bronson, un maestro, ma anche un compagno di giochi, un divertente intrattenitore ed un sicuro punto di riferimento esistenziale.

Il disagio della nostra epoca nei confronti della fantasia e dell’illusione, si è concretizzato nella distruzione di ogni forma di gratificazione per chi pratica uno sport. I ginnasti alle gare sono ansiosi, preoccupati, stressati, i genitori incitano questi piccoli “mostri” fino a diventare dei fanatici selvaggi. La gara diviene l’immagine speculare di una società che inculca nei giovani i valori dominanti quali: l’aggressività, l’arrivismo, il calcolo, la finzione.

Nessuna delle piccole ginnaste di Vittorio Servedio arrivò a primeggiare. Nessuna divenne famosa. Ma che paese è il nostro, se di fronte ad uno che si rende meritevole di prodezze umane (far vivere bene uno sport a delle fanciulle) nessuno se ne ricorda quando è il momento di ricordarsene? Penso che l’opera svolta da questo modesto, quanto bravo “istruttore” sia stata utilissima. Egli ha saputo creare un gruppo nel quale la felicità, la gioia di praticare uno sport ha prevalso di gran lunga sull’ansia di risultato e su ogni esasperazione agonistica.

Enzo Pirroni

 

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