Considerato che mercoledì prossimo sarà una delle giornate più torride degli ultimi settant’anni, la prospettiva di starsene in casa con i condizionatori accesi a seguire la giornata politicamente più torrida degli ultimi vent’anni non è poi così spiacevole.
Abbiamo bei ricordi di due anni fa, quando il Salvini in pieno trip da Papeete fece cadere il governo Conte 1 al grido di «voglio i pieni poteri», aggiudicandosi la prima e forse la più clamorosa delle figuracce di cui in seguito è diventato un accanito collezionista. Era l’ultima estate prima del Covid, la socialità extra-domestica era ancora competitiva rispetto alla televisione che ammanniva la solita carriolata di repliche e Techetecheté, e quella diretta dal Parlamento e la lunga Maratona Mentana furono la cosa più appassionante mai passata sullo schermo ai primi di agosto, eccettuate le gare olimpiche.
Il discorso del Draghi dimissionario in programma fra quattro giorni ci darà altrettante emozioni? Usciremo dalla prossima settimana con un Draghi che con un supremo sforzo di autocontrollo frena il frenetico roteare dei suoi zebedei e riprende la guida di un governo pentastellati-free? O avremo un governo-traghetto fino alla scadenza della legislatura, magari guidato da una donna, così si fa bella figura a buon mercato, visto che non può fare un tubo e comunque ad aprile 2023 si toglie dalle scatole? O ci ritroveremo davanti l’inusitata prospettiva di un voto politico in autunno, mai successo?
La prima ipotesi sembra già sfumata: l’unico a crederci è il Pd, mentre i grillini si guardano con l’aria colpevole dei bambini pestiferi che si rendono conto di averla fatta veramente grossa e si domandano impauriti se questa volta il babbo ha perso sul serio la pazienza e li manderà in collegio.
Personalmente vorrei poter fare rewind, tornare a una settimana e cercare di riportare Giuseppe Conte alla ragione. Capisco che gli ultimi risultati elettorali fossero sconfortanti per il leader M5S, anche se probabilmente meno sconfortanti dei prossimi, e per «Giuseppi» che non sia facile vedere quell’azzimato buono a nulla di Di Maio comodamente installato alla Farnesina con tanto tempo libero per inventarsi un nuovo partito, mentre lui, l’ex premier, l’avvocato del popolo che piace tanto a mamme e nonne e a Marco Travaglio, deve stare fuori dalla porta e vedere inabissarsi il futuro suo e del movimento.
Ed è vero che la concezione della politica come arte del possibile in Italia è circoscritta all’area del proprio sedere e dell’eventuale poltrona sottostante. Ma con uno scenario autunnale in cui l’Italia rischia di essere una specie di ippodromo per tutti e quattro i cavalieri dell’Apocalisse – guerra, carestia, pestilenza e morte – non c’era bisogno di essere un padre della patria per guardare qualche centimetro oltre il proprio lato B.
E magari pensarci due volte prima di credersi Masaniello in doppiopetto e mandare a gambe all’aria un premier come Draghi, competente, autorevole, ascoltato in tutto il mondo.
Poi se i maligni insinuano che il carburante che ha messo in moto l’imboscata al nostro premier, come quello dello sgambetto a Boris Johnson, viene da Mosca, finisce che qualcuno ci crede pure, considerato che il Centro Russo di Scienza e Cultura, diretta emanazione del Cremlino, è nello stesso palazzo romano che ospita l’ufficio dell’avvocato Giuseppe Conte.
Sarebbe una ben triste fine, per il partito che voleva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, accontentarsi di far cadere i governi per una scatoletta di caviale.
Lia Celi