Avete mai visto persone che saltano muri, muretti e ringhiere? Non con un saltino qua e uno là, ma eseguendo un percorso, superando qualsiasi ostacolo con la maggior efficienza di movimento possibile, adattando il proprio corpo all’ambiente circostante (naturale o urbano) con volteggi, scalate e arrampicate. Questa pratica molta strana e anche parecchio pericolosa (dei ragazzi, infatti, hanno perso la vita provando ad eseguire questi salti), si chiama Parkour e, negli ultimi anni, si è diffusa anche in Italia.
Il termine Parkour, coniato da David Belle e Hubet Koundè nel 1998, deriva da parcours du combattant (“percorso del combattente”), ovvero il percorso di guerra utilizzato nell’addestramento militare da Gerges Hèbert. I praticanti di questa disciplina metropolitana vengono chiamati Tracciatori (traceurs) al maschile o Tracciatrici (traceuses) al femminile. Uno di questi Tracciatori è Tomas Betti, riminese di 39 anni, insegnante di Hip- Hop e Breackdance, con un passato anche da allenatore di Parkour.
Quando è nato esattamente il Parkour? E lei quando ha iniziato a praticarlo?
«E’ nato nei primi anni ’90 in Francia. Io ho iniziato verso il 2007, vedendo dei ragazzi che lo facevano a Milano».
Possiamo definirlo uno sport?
«Più che sport lo definirei una disciplina, essendo una forma di espressione che lavora su originalità, spettacolarità, stile e interpretazione, nel superare un ostacolo o completare un percorso».
Il Parkour si è diffuso anche in Italia? A Rimini, ad esempio, quanti lo praticano?
«Sì in Italia è diffuso e spero lo sia sempre di più. Rimini poi offre ottimi spunti per allenarsi. Non saprei dire il numero, non li ho mai contati, ma sicuramente siamo in tanti. Esistono associazioni, gruppi sportivi e singoli atleti di grandissimo valore».
Molti ragazzi hanno perso la vita praticando questa disciplina. E’ così pericolosa?
«La causa non è il Parkour, ma è la mancanza di conoscenza della disciplina, dei propri limiti e del pericolo. Il pericolo nasce da un altro problema, e cioè quello di cercare a tutti i costi la notorietà o solo il farsi vedere dai propri amici. Io ho sempre cercato l’adrenalina e di superare i miei limiti, ma sapendo fino a dove potevo arrivare e soprattutto da dove iniziare. In questo caso, mi dispiace dirlo, non è un ragazzino che è morto praticando parkour, ma un ragazzino che incoscientemente si è lanciato, senza sapere del risultato tragico. Se non so camminare non posso pretendere di scalare il K2. A volte, l’emulazione viene eseguita troppo ingenuamente e questo mi dispiace. Le persone che fanno queste acrobazie nei video sono atleti molto preparati e questo è sempre bene ricordarlo».
Quali sono i suoi consigli per praticarlo in maniera sicura?
«La maniera più sicura, per me, è iniziare dai fondamentali per poi arrivare sempre più in alto. Se capisco già da subito la difficoltà e la preparazione per arrivare a certi risultati, so qual è il modo più sicura per affrontare certe situazioni o certi ostacoli».
Il Parkuor, quindi, non lo possono praticare tutti; oppure sì?
«Come tutte le discipline è praticabile a seconda della propria forza volontà e visione della vita. Indubbiamente richiede tanto sforzo e lavoro, ma ormai cosa non lo richiede? Io direi che per iniziare a conoscere i fondamentali e magari le basi ginniche, si può partire anche dai 5-6 anni fino a un età che consente ancora di reggersi in piedi».
Lei, invece, fino a quando praticherà Parkuor?
«Anche io finché le ossa mi reggeranno, ma di sicuro il concetto di superare i propri limiti e non arrendersi mai verrà nella tomba con me».
Nicola Luccarelli