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LIBRI SOTTO L’OMBRELLONE – Oblomov

Se siamo arrivati all’ultimo consiglio di lettura sotto l’ombrellone vuol dire che – come cantavano i Righeira a metà degli anni ottanta – “l’estate sta finendo e un anno se ne va […] in spiaggia di ombrelloni non ce ne sono più”. Ma qui a Rimini gli ombrelloni sono ancora fitti e le spiagge pullulano di bagnanti in cerca di ristoro talassico.

Il libro con il quale chiudere il ciclo agostano è un capolavoro – semisconosciuto e sottovalutato – della letteratura russa. Oblomov di Ivan Gončarov.

Le ragioni per incontrarlo attraverso la lettura sono molteplici. La prima è che la casa editrice Einaudi l’ha fatto tradurre in italiano da Ettore Lo Gatto, critico letterario, Accademico dei Lincei e padre della slavistica in Italia. Poi, la prefazione al testo è di Giorgio Manganelli – lo scrittore neoavanguardista del Gruppo 63 – uno tra i più grandi talenti espressivi che la letteratura italiana abbia mai espresso. Il Maradona del lessico e della pirotecnia verbale.

Tanto è vero che la prefazione a questo testo vale – da sola – l’acquisto del libro. Manganelli avverte da par suo il lettore: “Fortunatamente, Oblomov è uno di quei libri che non è lecito recensire; o lo conoscete, e vi ha sedotto, e un recensore non può dirvi nulla; o non lo conoscete, e allora, per favore non perdete altro tempo con queste fatue righe, e andate a leggerlo”.

Per la stessa ragione mi asterrò dal recensirlo ma semplicemente tenterò di ingolosirvi alla lettura sotto l’ombrellone. Operazione ardua se si pensa che il suo autore – Ivan Gončarov – è un placido signorotto sanpietroburghese che ha condotto una vita al limite dell’insignificanza e che la storia narrata in Oblomov, uscita per la prima volta nel 1859, non racconta – pressoché nulla.

Date queste premesse, sembrerebbe impossibile comprendere perché questo romanzo rappresenti un caposaldo della letteratura russa. E invece, in queste quasi cinquecento pagine, il lettore ha modo di compiere il periplo dell’anima di un uomo che ha eletto la pigrizia a religione della sua vita. Oblomov è il sacerdote che officia il rito del quotidiano stando disteso sul suo divano, accudito molto e poco riverito dal suo rude ma fedelissimo servitore Zachar, cui spetta persino il compito di vestirlo ogni giorno. Una piccola rendita gli consente di non doversi preoccupare economicamente della sua sussistenza.

Superbo l’attacco del romanzo: “In via Goròchovaja, in una di quelle grandi case, la cui popolazione sarebbe stata sufficiente per tutta una città di provincia, se ne stava di mattina a letto nel suo appartamento Il’jà Il’ič Oblomov. Era questi un uomo di trantadue-trentatre anni, di media statura, di aspetto piacevole, con occhi grigio-scuri, ma nei tratti del volto privo di qualsiasi idea determinata, di qualsiasi concentrazione. Il pensiero passeggiava come un libero uccello sul suo viso, svolazzava negli occhi, si posava sulle labbra semiaperte, si nascondeva nelle rughe della fronte, poi scompariva, e allora su tutto il volto si accendeva l’uniforme colore dell’indolenza. Dal volto l’indolenza passava alle pose di tutto il corpo, perfino alle pieghe della veste da camera”.

Ma questa indolenza non è tanto espressione di una passività o di un’apatia emotiva; infatti, si scoprirà leggendo che quest’uomo apparentemente insignificante diventerà a poco a poco un piccolo maestro dell’indugio, della contemplazione. Un uomo che concepisce ante litteram la frenesia come un veleno. E come il Barone Rampante di Italo Calvino – che da bambino sale sugli alberi per non scendervi più, per trascorrere tutta la vita tra i rami, – parimenti Oblomov sceglie l’immobilità divanesca come bussola e faro del suo trascorrere quotidiano.

Ma c’è sempre nella vita di tutti, anche in quelle più ordinarie, schive e refrattarie alla tessitura di trame relazionali, una scintilla che fa divampare il grande incendio. Nella vita di Oblomov si chiama Olga. Una magnifica donna che entra nei suoi giorni non come un ‘fulmine a ciel sereno’ ma come l’estate in un giorno di rigido inverno russo.

L’innamoramento si propaga in fretta e catapulta Oblomov giù dal divano. Per pochi attimi si avrà l’illusione che l’amore possa svellere le più aride zolle di sensibilità e di ritrosia a partecipare al girotondo della vita. Come prosegue la storia sarà compito della vostra passione di lettori indagare.

Per chi crede che Michele Serra abbia scoperto la quintessenza dei ragazzi nati nel terzo millennio – descritti nel libro di successo dal titolo Gli sdraiati – si sbaglia. Oblomov è l’archetipo del sognatore che non si scolla dalla sua soffice e distesa postura sdraiata, nella speranza che siano i sogni stessi ad andarlo a visitare. E non è un caso che vi sia un intero capitolo che s’intitoli proprio – Il sogno di Oblomov, che in origine era stato concepito come un testo a sé rispetto all’intera opera. Un piccolo capolavoro dentro a un grande capolavoro. Una minimale ma onesta utopia esistenziale. Il riscatto dalla tragedia e dall’infelicità umane attraverso la visione di un luogo che non c’è. Dove tutto accade nella direzione del bene e della gioia. Un luogo dove persino “i temporali non sono terribili, ma solo benefici: arrivano sempre a tempo debito”.

Come a tempo debito mi auguro entri nelle vostre esistenze questa lettura. Perché Oblomov siamo noi. L’eroe – non delle grandi gesta – ma del semplice quotidiano agire. Della sopravvivenza lontana dai riflettori. Quella qualunquità che diventa sinonimo di feconda e arricchente diversità. Lontano dall’Olimpo e dai crocevia della Storia. Come un raggio di sole che ci accarezza dolcemente il volto dopo avere s-voltato l’angolo di una strada qualunque, di una qualunque periferia del mondo. È proprio da questi libri – in apparenza pervasi di mitezza e di quiete – che nasce la voglia di assaporare fino in fondo l’inquietudine e la turbolenza delle passioni.

Perciò, non mi limito ad augurarvi solo una buona lettura ma che ne segua una altrettanto buona – e soprattutto intensa – esplosione di vita.

Paolo Vachino

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