La prima lettura post-ferragostana che vi suggerisco è uno dei libri più straordinari della storia della letteratura. Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. È un romanzo imprescindibile nella carriera di ogni lettore. Per tante ragioni che provo a esporvi.
Intanto perché l’autore colombiano è uno dei maggiori scrittori in lingua spagnola, vincitore del Premio Nobel nel 1982. Il romanzo è stato pubblicato nel 1967, anni di pieno fermento rivoluzionario mondiale. Anno – in particolare – in cui i Pink Floyd pubblicavano il loro primo singolo e a seguire il loro primo album. Anno in cui veniva catturato in Bolivia e fucilato Che Guevara. Anno in cui Barnard eseguiva a Città del Capo il primo trapianto mondiale di cuore.
Psichedelìa, rivoluzione, scienza. Tre ingredienti di cui Marquez si è servito per comporre questo capolavoro narrativo. La psichedelìa è reinterpretata da Marquez in chiave di ‘realismo magico’, una corrente artistica non solo letteraria ma anche pittorica in cui la realtà è trasfigurata magicamente. Materia e visione, carne e spirito, immanenza e trascendenza.
Il romanzo è una piccola saga familiare, che racconta – a partire dalla fine dell’800 – le vicissitudini della famiglia Buendía. Il suo capostipite, José Arcadio Buendía decide di fondare un villaggio – Macondo -, anche se si trovava nella più totale ignoranza della geografia della regione. È un uomo dall’intraprendenza e dall’immaginazione smisurate.
In questo villaggio sorto sulla riva di un fiume, con case di argilla e canne selvatiche, al sopraggiungere del mese di marzo, ogni anno faceva visita alla comunità fondata da Buendía, una famiglia di zingari cenciosi, (es)portatori di oggetti rari e sconosciuti.
La prima fu una calamita. José Arcadio Buendía se ne sarebbe servito per sviscerare l’oro dalla terra. Esperienza che si rivelò fallimentare, come molte altre a seguire. La seconda fu un cannocchiale e una lente grande come un tamburo. Melquìades – tessendo l’elogio pubblico di questo strumento – pronunciava le seguenti parole profetiche: “La scienza ha eliminato le distanze. Tra poco l’uomo potrà vedere quello che succede in qualsiasi luogo della terra, senza muoversi da casa sua”.
Ancora una volta il capostipite dei Buendía si ribella all’ortodossia del progresso e sceglie di utilizzare questa invenzione come fosse un’arma da guerra. Dissipando tutto il patrimonio familiare. Ma a corrispondere a questa mitologica creatura maschile è la moglie Ursula Iguarán, altrettanto leggendario personaggio che vivrà all’incirca quasi centoventi anni e sarà in grado di abbracciare i suoi discendenti sino alla settima generazione.
E loro avranno come secondogenito il primo bambino nato a Macondo – Aureliano Buendía – che così verrà descritto dall’autore: “Il colonnello Aureliano Buendía promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati l’uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatre imboscate e a un plotone di esecuzione”.
Plotone di esecuzione del celeberrimo incipit del romanzo: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. Il ghiaccio era un altro dei prodigi magnificati da Melquìades, il corpulento zingaro con la barba arruffata e le mani di passero.
Marquez eccelle nel raccontare la storia attraverso reiterate prolessi, la figura retorica dell’anticipazione di un evento raccontato come contemporaneo ad altri. È un modo di scardinare il tempo, mescolando storia e leggenda, realtà e fiaba. L’altra caratteristica narrativa è l’uso dell’iperbole, una forma metaforica di accrescimento o rimpicciolimento di un evento. E questo è il modo di scardinare lo spazio, attraverso l’amplificazione degli attributi fisici e spirituali dei protagonisti di questa incandescente storia.
Un romanzo di formazione non individuale ma collettiva. L’utopia della comunità che si ritaglia uno spazio in cui prosperare e proliferare. Ma la solitudine del titolo è la prima anticipazione del fallimento di questo progetto umanitario che sognava di portare l’ordine dentro al caos, la meraviglia dentro alla tragedia, l’amore dentro alla violenza.
Questa storia è il tripudio dei personaggi femminili. Il controcanto dolce e crudele dell’opposta metà del cielo, quel maschile tracotante ed esuberante come il clima tropicale che fa da cornice alla narrazione. Figure come Amaranta, che insieme alla sorella adottiva Rebeca, s’innamorerà dell’unico personaggio italiano della storia – Pietro Crespi -. Amaranta che proverà un odio implacabile verso la sorella adottiva, destinata alle nozze con l’italiano. Rebeca, adottata dalla famiglia Buendía all’età di undici anni, la bambina che mangiava avidamente la terra dei campi, porterà a Macondo la peste dell’insonnia. Anche questa malattia è una vaticinazione profetica delle nevrosi che colpiranno la nostra società alla fine del secondo millennio.
Remedios Moscote, la bellissima bambina di nove anni di cui s’innamorerà perdutamente il colonnello Aureliano Buendía e che morirà quattordicenne nel tentativo di dare alla luce due gemelli. E così a seguire ogni personaggio che comparirà nel racconto di sette generazioni familiari, che tenteranno l’impresa disperata di fare di Macondo il centro del mondo affettivo e relazionale familiare, presenterà dei caratteri di straordinarietà che vi faranno dimenticare la calura di spiaggia e il vociare festoso dei bambini che corrono a fare il bagno.
Per invogliarvi a portare questo libro sotto l’ombrellone e a gustarvi le rocambolesche peripezie di questa inquieta famiglia sudamericana, e nel prendere congedo da voi, vi riporto un passaggio emblematico di cosa sia stato il realismo magico incarnato magistralmente da Marquez, in cui si narra del trapasso a miglior vita del fondatore della dinastia dei Buendía: “Allora entrarono nella stanza di Josè Arcadio Buendía, lo scossero con tutte le loro forze, gli gridarono nell’orecchio, gli misero uno specchio davanti alle narici, ma non riuscirono a svegliarlo. Poco dopo, quando il falegname gli prendeva le misure per la bara, videro attraverso la finestra che stava cadendo una pioggerella di minuscoli fiori gialli. Caddero per tutta la notte sul villaggio in una tormenta silenziosa, e coprirono i tetti e ostruirono le porte, e soffocarono gli animali che dormivano all’aperto. Tanti fiori caddero dal cielo, che al mattino le strade erano tappezzate di una coltre compatta, e dovettero sgomberarle con pale e rastrelli perché potesse passare il funerale”.
Buona lettura.
Paolo Vachino