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La vicenda Autostrade per l’Italia spiegata per chi vuole capirci qualcosa

Si ha l’impressione che sulla questione della revoca della concessione autostradale ad Aspi si sia fatto un racconto più volto a giustificare il privato piuttosto che a interrogarsi sui reali termini economici della questione. Le conclusioni, poi, concordanti fra i vari commentatori, portano a sostenere che il recente accordo firmato tra le parti produrrà una sicura disfatta gestionale per lo Stato italiano, il quale poi trarrà pure una cattiva pubblicità nei confronti degli investitori stranieri.

In verità la questione è assai più complessa di quella narrata e non necessariamente negativa per le tasche degli italiani. Proviamo, quindi, con ordine a dipanarla.  

Sulla questione della revoca e del relativo risarcimento danni multimiliardario.

I decantati 20 miliardi di risarcimento danni non trovano alcun riscontro puntuale nella concessione sottoscritta con Autostrade per l’Italia (in sigla nota anche come ASPI). Stesso discorso vale per l’ipotetico minor risarcimento di 7 miliardi, previsto nel decreto Milleproroghe. In entrambi casi, poi, non si può nemmeno concludere che siano degli esborsi a fondo perduto da parte delle casse statali. Al contrario l’eventuale pagamento delle suddette somme può rientrare nel più ampio concetto di anticipazione di incassi futuri da parte dello Stato. Ciò almeno si ritrae dalla lettura puntuale delle carte a disposizione. 

Per quanto riguarda l’atto di concessione, all’articolo 9 bis si prevede che, in caso di revoca della concessione, lo Stato debba riconoscere un risarcimento ad ASPI pari al “valore netto dei ricavi della gestione” prevedibili dal momento della revoca fino alla scadenza della concessione detratti, però, “i relativi costi, oneri, investimenti ed imposte prevedibili nel medesimo periodo”. Al risultato così ottenuto va decurtato sia l’indebitamento finanziario netto assunto dallo Stato sia i flussi di cassa che Autostrade per l’Italia dovrebbe percepire durante il periodo fra la revoca e la presa in carico da parte dello Stato stesso della rete autostradale. In parole povere, si può affermare che il risarcimento danni previsto nella concessione è pari all’utile atteso negli anni residui di gestione autostradale al netto della somma necessaria a pagare i debiti in carico ad ASPI, che con la revoca saranno assunti dallo Stato. Si può supporre, quindi, che qualcuno abbia calcolato che questo utile atteso della gestione sia pari a 20 miliardi. Può star bene questo numero, però non è corretto sostenere che siano soldi sprecati dalla Stato, perché quella somma, essendo appunto utili attesi, sarà recuperata durante la gestione residua della concessione oggetto di revoca. Al più, quindi, potrà succedere che quello che si anticipa sarà uguale a quello che si andrà ad incassare. Certamente, invece, si può sostenere che la concessione sia scritta male perché eccessivamente sproporzionata a favore del privato, soprattutto laddove si prevede che l’indennizzo poc’anzi descritto spetta in “ogni caso di recesso, revoca, risoluzione anche per inadempimento del Concedente (cioè ASPI)”. 

Sostenere, però, che ci rimettiamo 20 miliardi è una affermazione falsa. 

Stesso discorso vale per gli eventuali 7 miliardi di indennizzo. L’incriminato articolo 35 del decreto Milleproroghe si limita a stabilire, tacendo qualsiasi cifra, che nel caso di revoca di concessioni autostradali (non solo ASPI ma tutte le concessioni autostradali in essere) la loro gestione può passare in capo ad Anas e che nel determinare gli eventuali risarcimenti si debba tenere conto delle regole previste dal Codice Civile, superando qualsiasi patto difforme precedentemente sottoscritto. Il rinvio alla disciplina del Codice Civile fa sì che nella quantificazione si debba tener conto anche del danno che il Concessionario revocato deve corrispondere allo Stato in dipendenza del suo negligente comportamento. Un principio sacrosanto, verrebbe da dire, purtroppo non recepito in precedenza in molti contratti. E’ parimenti vero, poi, che con questo piccolo codicillo, si modificano unilateralmente delle clausole contrattuali già in precedenza sottoscritte, non solo con ASPI ma anche con altri gestori, il che non è proprio il massimo dal punto di vista del corretto comportamento contrattuale da parte dello Stato. Ma di cifre non se ne parla, e ad ogni modo anche in questo caso sarebbero recuperate abbondantemente con la gestione. 

Sulla sostanza dell’accordo raggiunto e l’eventuale arricchimento dei Benetton. 

L’accordo prevede che la società Autostrade per l’Italia deliberi un aumento di capitale riservato a Cassa Depositi e Prestiti (CDP), per consentire a quest’ultima di acquisire la maggioranza del capitale sociale. L’importo dell’aumento, secondo stime di autorevole stampa finanziaria, dovrebbe essere attorno ai 4 miliardi di euro. Per il tipo di operazione posto in essere, questi soldi non vanno ai Benetton, ma direttamente nelle casse di ASPI, utili per finanziare lo sviluppo futuro. Successivamente Atlantia, che è la società dei Benetton che detiene la partecipazione dentro ASPI, provvederà a cedere a investitori qualificati, indicati da CDP, parte della propria partecipazione. Infine, dopo una operazione di scorporo, Autostrade per l’Italia verrà quotata in Borsa e ciascun socio potrà procedere a vendere liberamente le proprie partecipazioni sul mercato. Se i Benetton prendono dei soldi, lo fanno da investitori privati che acquistano da loro le partecipazioni che devono essere obbligatoriamente cedute. In più si tace del fatto che i soldi che verranno incassati saranno utilizzati per coprire i debiti che Atlantia ha con i propri finanziatori, come ad esempio le Banche o i fornitori, rimettendo quindi in circolo il denaro incassato dallo smobilizzo obbligato di Aspi. 

Sulla gestione dello Stato e sul suo eventuale disastro.

La parte più curiosa delle critiche verte sul fatto che lo Stato finirà per gestire male le Autostrade come se, al contrario, la gestione dei privati sia stata fin qui ottimale.  Per dimostrare tale tesi si utilizza lo stato pietoso delle strade gestite da ANAS. Tale richiamo, però, contiene due piccoli ma fondamentali errori. Il primo è che ANAS gestisce strade per la grandissima parte a transito gratuito e il reperimento delle risorse per la loro manutenzione avviene dietro corresponsione di un contributo da parte dello Stato. La scarsità endemica di finanze pubbliche porta con sé inevitabilmente tagli sul finanziamento delle manutenzioni con il logico corollario che l’ente incaricato fa i salti mortali per garantirle a livelli accettabili. E ovviamente non ci riesce. 

Il secondo è che ANAS è una società controllata interamente dallo Stato, per tramite di Gruppo Ferrovie dello Stato, ed essendo organismo di diritto pubblico, deve seguirne le stringenti regole di azione. Per cui, per definizione e per natura, è un pachiderma burocratico. 

Autostrade per l’Italia è altra cosa rispetto ad Anas. Prima di tutto perchè gestisce strade a pagamento, traendo da esse le risorse necessarie per il loro mantenimento. Poi perché ha dei soci privati i quali guardano, come giusto che sia, al portafoglio indi per cui chiederanno conto dell’efficienza e dell’efficacia della gestione.

Se ciò non bastasse, c’è pure da evidenziare che lo Stato, quando fa impresa, lo fa in modo discreto. Come accade, ad esempio, con ENI spa, che è casualmente anche la più grande impresa italiana, dall’alto dei suoi 73 miliardi di ricavi e quasi 800 milioni di euro di utili distribuiti al Ministero dell’Economia ogni anno. Oppure come accade con Leonardo (ex Finmeccanica), STMicroelettronics e via dicendo. Lo Stato imprenditore non è vero che sia così inefficiente come si vuol far credere. 

Autostrade per l’Italia è una formidabile macchina da soldi.

Il Governo si troverà socio, investendo circa 4 miliardi di euro, di una società che è una formidabile macchina da soldi. Nel 2017 ha generato un flusso di cassa netto pari a circa 2,5 miliardi di euro su un fatturato di 3,8 miliardi mentre nel 2018  il flusso è sceso a 1,4 miliardi di euro solo a causa di un rimborso di un finanziamento fatto dai soci per circa 1 miliardo di euro. Nel 2019, nonostante l’esecuzione di imprevisti ulteriori nuovi lavori per le note vicende relative al Ponte Morandi, si è registrato un flusso di cassa pari a euro 1,2 miliardi di euro. 

Anche sul piano meramente reddituale, tralasciando il 2019 che è viziato da un accantonamento straordinario relativo alla questione del Ponte Morandi, ASPI è una gallina dalle uova d’oro. Il risultato operativo, che è il dato che misura l’utile generato dall’attività prima di procedere al pagamento degli interessi e delle tasse, nel 2017 era di circa 1,75 miliardi di euro su 3,8 miliardi di euro di ricavi, cioè il 46,05%. Vuole dire che per ogni 100 euro che ASPI incassava, 54 euro andavano per pagare i costi e i restanti 46 rimanevano a disposizione dei soci per pagare le tasse ed eventuali interessi sul debito. Un dato francamente impressionante, che difficilmente si può rintracciare in molte attività imprenditoriali. Diverso è il discorso per il 2018 e il 2019 ma si possono considerare anni straordinari e anomali, perché sporcati dagli accantonamenti sia per i ripristini sia per gli eventuali danni relativi al crollo del Ponte Morandi. Ad ogni modo nel 2018, anche con un accantonamento straordinario di circa 400 milioni di euro, il risultato operativo è stato pari al 33,03% dei ricavi, dato di tutto rispetto. Anche sul versante utili la cosa non cambia. Tralasciando ancora una volta il 2019, se si assume come anno tipo il 2017, l’utile di esercizio di ASPI era di 968 milioni di euro, pari a un stupefacente 25% dei ricavi. Il 2018, nonostante gli accantonamenti straordinari, gli utili hanno raggiunto la somma di 618 milioni di euro. Se il trend del 2017 dovesse mantenersi anche nei prossimi anni, vuol dire che lo Stato, per tramite di Cassa Depositi e Prestiti, dovrebbe incassare un dividendo di almeno 400 milioni all’anno, conseguendo un tasso di rendimento dell’investimento di circa il 10% lordo.  Ciò vuol dire, poi, che in un lasso di tempo residuo della concessione di 17 anni, ipotizzando uno scenario economico costante, lo Stato italiano oltrechè rientrare dei suoi 4 miliardi di euro investiti ci guadagnerà pure altri 2,8 miliardi.  Alla faccia di chi grida allo sperpero del denaro pubblico!

Benaglia Giovanni, dottore commercialista, revisore contabile

 

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