All’alba del primo giorno di marzo si colloca una delle tradizioni più curiose della Romagna, espressa in ciò che appare più una formula magica che un proverbio: “Sol ad merz, cosmi e cul e no elt”, sole di marzo, cuocimi il culo e non altro.
La spiegazione del riminese Gianni Quandamatteo: “Era antica usanza di esporsi al sole di marzo col sedere nudo per preservarsi – come comune credenza – dalle malattie”.
Un po’ diversa l’interpretazione del ravennate Umberto Foschi: “Le ragazze esponevano il deretano nudo al sole, stando sul tetto o ad una finestra non esposta a sguardi indiscreti, credendo così di non cuocersi poi la faccia al sole durante i lavori campestri. Allora la tintarella non era di moda!”.
Se non che l’usanza, almeno a Cesena, non doveva riguardare solo le ragazze, stando a quanto riporta Giuseppe Gaspare Bagli: “Marz marzazz, cusum al cul e brisa al mustazz”, marzo marzaccio, bruciami il culo ma non i mustacchi.
Conferme e varianti del rito nel Riminese sono state raccolte da Maria Cristina Muccioli. In “Parché l’àn nòv u t’azuva, e’ prem dl’àn màgna l’uva”, (Agenda storica 1999, a cura di Maurizio Matteini Palmerini. Pietroneno Capitani Editore Rimini) si trova: «I contadini e le contadine per preservare la pelle dai danni del sole e del vento avevano escogitato un originale rituale. Nel primo giorno di marzo si denudavano il sedere “affinché dal morso della cottura estiva resti immune altrove che è, in passione, prerogativa gelosa della bellezza“. Offrivano il deretano al sole mattutino esclamando al mondo: “Sol d’merz cusum e cul e no cusr etar” (Sole di marzo, cuocimi il culo e non cuocermi altro). Gli uomini salivano fin sul tetto della casa. Le donne invece mostravano la carne delle natiche, più pudicamente, da una finestra».
Invece in ‘Un cassetto in fondo al cuore ‘ di Tecla Botteghi (testo raccolto da Emanuela Botteghi, associazione Ippocampo Viserba) si riporta un altro detto: “Pirinela sora i cop, e fa veida e cul ma tot”.
Segue la spiegazione: «Il primo marzo attendeva da tutti una cerimonia importante dedicata all’inizio del bel tempo. Per scongiurare pericolose scottature, carnagione troppo scura, dannose insolazioni, si doveva mostrare ‘e cul ma merz‘. L’ora propizia era il primo mattino, al sorgere del sole. Era una cerimonia intima ed era opportuno che il sedere nudo fosse visto solo da marzo. Al mattino presto i bambini, con risatine soffocate, esigevano di essere soli. Poi spalancavano la finestra, controllavano che nessuno fosse in vista, tiravano giù le braghette, giravano il sederino verso il sole e recitavano la formula magica: ‘Marzo cuocimi questo e non cuocermi altro’ per tre volte. Poi si tiravano su i calzoni, o tiravano giù le sottane, e la cerimonia era finita. C’era però da fare i conti con i fratelli dispettosi che entravano sul più bello facendo loro ‘baia’; i più birichini mostravano il sedere facendo mille smorfie e finiva a cuscinate e a capriole. Le mamme provvedevano per i più piccoli perché anch’essi fossero salvi dai pericoli del solleone. A tavola i bambini guardavano maliziosi i genitori: “E voi, avete fatto vedere il sedere a marzo?’ “Sì. E dove?” “‘Sul tetto.».
Il gesto scaramantico di scoprirsi le terga si ritrova fra i marinai romagnoli di fronte al mare in burrasca, fra i pastori abruzzesi al cospetto dei temporali, in faccia al nemico in battaglia presso molti popoli e più convintamente fra i Celti, ma anche come infallibile scongiuro per scacciare il diavolo o una strega. E’ un segno di sfida, di disprezzo dell’avversario per quanto possente possa essere.
Perché dalle nostre parti andasse compiuto proprio all’inizio di marzo, è argomento da antropologi. Probabile la connessione con il capodanno del calendario romano più antico, quello di Romolo: forse per sgombrare il nuovo anno dalle potenze maligne? La sfida pare però rivolta al sole, di solito entità benevola. Ma gli antichi sapevano bene che ogni potere ha sempre due valenze, una positiva e una negativa. E quindi bisognava accendere fuochi per dare forza al sole che iniziava a riprendersi dopo l’inverno, ma anche cautelarsi dai suoi eccessi che sarebbero potuti arrivare più avanti? Chissà.
(nell’immagine in apertura, illustrazione tratta da E’ Luneri rumagnol di Gianni Quondamatteo, Galeati 1980)