A 50 anni dalla nascita di Corto Maltese, apparso per la prima volta ne Una ballata del mare salato (1967), Genus Bononiae e CMS.Cultura portano a Bologna fino al 19 marzo 2017, presso Palazzo Pepoli – Museo della Storia di Bologna, la grande mostra Hugo Pratt e Corto Maltese. Cinquant’anni di viaggi nel mito, che Chiamamicittà ha visitato per voi.
Forse non tutti sanno che il celebre fumettista, considerato uno dei più grandi di tutti i tempi, nacque proprio nella città di Rimini il 15 giugno del 1927. Hugo Eugenio era figlio di Rolando Pratt, militare di carriera romagnolo di origini inglesi, morto nel 1942 in un campo di concentramento a Diredaua dopo essere stato preso prigioniero in Africa orientale, e di Evelina Genero, a sua volta figlia del poeta dialettale veneziano di origini marrane – ebrei convertiti – Eugenio Genero.
E proprio Corto Maltese, negli anni ’70, ha segnato profondamente l’immaginario degli studenti romagnoli: quelli che andarono a studiare a Bologna, ad esempio, si riconoscevano fra loro a metri di distanza perché indossavano tutti la giacca blu da marò con i bottoni d’ottone della marina militare, proprio per assomigliare a Corto… Riminese! La città romagnola ha sempre avuto, infatti, un rapporto speciale con Hugo Pratt e le recenti mostre della Biennale del Disegno e di Cartoon Club lo testimoniano.
La mostra bolognese è curata da Patrizia Zanotti, l’unica donna che Corto Maltese non ha mai abbandonato: argentina d’origine, la disegnatrice ha iniziato a lavorare con Pratt a soli 17 anni – nel 1979 – dapprima colorando le illustrazioni, poi occupandosi dei rapporti con gli editori e delle mostre dedicate al grande fumettista. Realizzata in collaborazione con Cong-Hugo Pratt art properties, l’esposizione presenta 400 opere tra disegni, acquerelli, chine e riviste. In mostra non c’è solo Corto Maltese ma anche altri personaggi di Pratt come Anna della Giungla (1959), Ernie Pike (1961), Sg.t Kirk (1955), e soprattutto le splendide tavole e acquerelli di Wheeling e degli Scorpioni del Deserto, che conducono il visitatore nell’Etiopia degli anni ’40.
«Questi sono avventurieri… ma l’avventuriero è sempre visto come uno che non ha le carte in regola, un emarginato, uno così… invece non è vero perché l’avventura vuol dire avvenire, vuol dire quello che succederà domani».
Così Hugo Pratt intervistato dalla Televisione della Svizzera Italiana il 26 gennaio 1995.
E l’itinerario proposto è proprio quello di un’avventura: l’esposizione, attraverso le opere di Pratt, accompagna il visitatore – avventuriero in un viaggio affascinante tra finzione e realtà; un intreccio fatto di incontri fortuiti, ambientati dall’impervia Africa fascista all’atmosfera magica della Serenissima. Una passeggiata sognante che non porta da nessuna parte, se non ad una flebile conclusione – come spesso accade in letteratura: è la stessa Patrizia Zanotti infatti a scrivere “in questa mostra abbiamo cercato di intrecciare la vita e lo spirito di Hugo Pratt e di Corto perché sono le due facce della stessa personalità”.
«Quando avevo quindici anni mio padre mi regalò un suo libro: un’opera scritta in inglese che mi diede quando partì per il campo di concentramento. Mi regalò quel libro dicendomi: “Ora vai a cercare la tua isola”. Quelle sono state le ultime parole che mi disse mio padre. Poi è morto e io sono rimasto con quel suo libro, era L’isola del tesoro.»
Da quel giorno in poi, la vita di Hugo Pratt non fu altro che la ricerca di quell’isola del tesoro. Per farlo si affidò all’unico mezzo possibile, la letteratura. Non una letteratura necessariamente ufficiale (come potevano esserlo Conrad, Melville, Coleridge, London) ma anche tutto ciò che lo affascinava perché misterioso, inspiegabile, irrazionale: dalla tradizione popolare degli indiani d’America, all’esoterismo, l’alchimia… perché, come egli stesso scriveva: «ho sempre pensato che accanto al mondo chiaramente decifrabile ne esista un altro nascosto» e ancora «racconto la verità come se fosse una cosa falsa. A differenza di molti altri che raccontano cose false volendole far passare per vere, in questo modo la lettura diventa doppia, tripla e il lettore trova che certe cose che ho detto erano vere allora gli viene una gran voglia di andare alla loro ricerca».
Edoardo Bassetti