Marco Fiori, capogruppo della Lega a Santarcangelo, ci ha inviato un suo commento sulla Giornata del Ricordo delle Foibe. Contiene osservazioni che vale la pena di approfondire.
Scrive dunque Fiori: “L’amministrazione comunale di Santarcangelo, lunedì prossimo, onorerà la data con la mostra “Fascismo, Foibe, Esodo” e la cosa mi fa contento, doppiamente contento se con la memoria vado ad un vecchio consiglio comunale durante il quale un consigliere di maggioranza disse che gli infoibati se lo erano meritati. Quanta tristezza, cattiveria e soprattutto ignoranza in queste parole ma era giusto riportare questo fatto soprattutto per coloro che facilmente tendono a dimenticare”. E fin qui Fiori dice purtroppo il vero.
Ma poi il capogruppo leghista prosegue: “Lungi da me il voler fare sterili polemiche soprattutto al riguardo di questa commemorazione che ha impiegato decenni per essere giustamente legittimata ma, non riesco a capire il nesso fra Fascismo e Foibe anzi assolutamente non centra nulla, a meno che non si cerca nuovamente di voler edulcorare le atrocità commesse dai partigiani di Tito contro gli italiani di Istria e Dalmazia. La componente italiana in Venezia Giulia e Dalmazia era una enclave secolare e certamente non collegata al fascismo. Inoltre la componente A.N.P.I. nella organizzazione della mostra non garantisce una imparziale visione della tragedia delle foibe ed una sentita e giusta commemorazione alla memoria delle vittime dei partigiani rossi, commemorazione che mi piacerebbe anche vedere manifestata con un monumento o una lapide. Tengo inoltre a ricordare che i comunisti italiani mai nascosero il loro odio e la loro riluttanza verso gli esuli giuliano dalmati”.
Qui di cose da dire ce ne sono parecchie. “La componente italiana in Venezia Giulia e Dalmazia era una enclave secolare”? Di più: Istriani e Dalmati di lingua e cultura latina (sui giuliani di Trieste il discorso si fa più complicato) non vivevano lì da secoli, ma da un paio di millenni, ben prima che arrivassero le popolazioni slave. Ma negare “il nesso fra Fascismo e Foibe”, affermare che il Fascismo “anzi assolutamente non centra (sic) nulla”, vuol dire mettersi fuori dalla realtà storica.
Da quando erano passate dalla Repubblica veneta all’Impero asburgico, dopo le guerre napoleoniche, il sentimento delle popolazioni di lingua e cultura italiane era di voler far parte della nascente Italia: si chiamava irredentismo. Ne fecero parte correnti di pensiero e personaggi di destra e di sinistra. Ad esempio ci fu il capitano Nazario Sauro di Capodistria, finito impiccato dagli Austriaci, che era repubblicano e progressista. Ma dalla stessa parte e suo concittadino c’era anche il generale Vittorio Italico Zupelli, monarchico conservatore e vice presidente del Senato con Mussolini, verso il quale peraltro provò sempre scarse simpatie.
Dopo la prima guerra mondiale i nazionalisti finiscono per allearsi con il nascente fascismo. L’impresa di Fiume è di D’Annunzio e non di Mussolini, però diventerà una delle colonne simboliche del Regime. E’ allora che si inizia a parlare di foibe e di pulizia etnica. Il Narodni dom, centro delle cultura slovena a Trieste, viene incendiato dai fascisti il 13 luglio 1920, nel corso di quello che Renzo De Felice definì “il vero battesimo dello squadrismo organizzato”. Arringando la folla di Pola dopo quel fatto, Mussolini dichiara: “Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani”.
Il fascismo conquista il potere e il ministro dei lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, firmandosi “Giulio Italico”, scrive: “La musa istriana ha chiamato con il nome di foibe quel luogo degno per la sepoltura di quelli che nella provincia dell’Istria danneggiano le caratteristiche nazionali dell’Istria” (“Gerarchia”, IX, 1927). Di quella “musa istriana” il ministro cita anche un verso in dialetto: “A Pola xe arena, Foiba xe a Pizin” (“A Pola c’è l’arena, a Pisino la foiba”). Durante gli anni ’20 e ’30 Sloveni e Croati sono sloggiati a migliaia da Friuli, Venezia Giulia, Istria e Dalmazia. A chi resta è proibito parlare slavo, si chiudono scuole, giornali e centri culturali. Il governo italiano disse allora di una “bonifica etnica”. La giustificazione addotta stava nel “riequilibrare” la politica asburgica, che durante l’Ottocento aveva senza dubbio favorito l’insediamento sulla costa di popolazioni slave, ritenute più fedeli all’impero di quelle italiane, irresistibilmente attratte al Risorgimento in atto. Ciò avvenne soprattutto in Dalmazia, dove gli Italiani erano già minoranza anche sotto la Serenissima. Va precisato che le divisioni etniche avvenivano (e avvengono) in base alla lingua parlata e non alla stirpe: moltissimi cognomi di chi si considerava “italiano” erano inequivocabilmente slavi. Ed era così da sempre, vedi il caso di Ruggero Boscovich (Ragusa, 18 maggio 1711 – Milano, 13 febbraio 1787) cui Rimini ha dedicato il piazzale del porto canale.
Poi viene un’altra guerra, con l’invasione e l’occupazione italiana della Jugoslavia. Di questa campagna durata dal 1941 al 1943 nel nostro Paese non si parla mai se non fra gli studiosi. Un silenzio tombale che non ha nulla da invidiare a quello piombato sulle foibe. Eppure l’8 settembre 1943 si trovavano su quel fronte 340 mila soldati, la netta maggioranza delle truppe italiane in campo. Per numero di truppe impiegate, la seconda guerra mondiale dell’Italia si è combattuta ben più in Jugoslavia che in Russia o nel resto dei Balcani. E come ci siamo comportati? Se la politica si divide, gli storici sono unanimi: nel giro di due anni i comandanti italiani fanno di tutto per meritarsi la qualifica di criminali di guerra.
Basta rileggersi la celebre circolare del comandante della II Armata, generale Mario Roatta: “1º dicembre 1942 – XXI°: Punto VI°: Alle offese dell’avversario si deve reagire prontamente e nella forma più decisa e massiccia possibile. Il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato nella formula «dente per dente» ma bensì da quella «testa per dente» […] – Capitolo II° – Misure precauzionali nei confronti della popolazione: 15) […] i Comandi di Grandi Unità possono provvedere: 15 a) ad internare […] se occorre intere popolazioni di villaggi; 15 b) a fermare ostaggi tratti ordinariamente dalla parte sospetta della popolazione; […] 15 c) a considerare corresponsabili dei sabotaggi, in genere, gli abitanti di case prossime al luogo in cui essi vengono compiuti; 16) Gli ostaggi […] possono esser chiamati a rispondere colla loro vita di aggressioni proditorie a militari e funzionari italiani […] nel caso che non vengano identificati […] i colpevoli».
Ancora prima, nel gennaio 1942, il generale e governatore del Montenegro Alessandro Pirzio Biroli (che aveva un villino a Viserba), aveva ordinato: «La favola del buon italiano deve cessare […] per ogni camerata caduto paghino con la vita 10 ribelli. […] ricordatevi che è meglio essere temuti che disprezzati». Pirzio Biroli specifica poi che la misura della rappresaglia di 10/1 riguarda ogni militare italiano ferito; se morto, si passa a 50/1.
Non mancano i campi di concentramento, il più tristemente noto sull’isola dalmata di Arbe, ma civili sloveni (33 mila su 1,5 milioni di abitanti; ma c’è chi dice 60 mila) sono deportati anche in pieno territorio italiano, come nel campo di Renicci presso Anghiari. In che condizioni siano detenuti lo dicono i rapporti dei Carabinieri: «Nei campi di concentramento la vita è davvero grama e fiacca il corpo e lo spirito. Particolarmente nel campo di Arbe, le condizioni di alloggiamento e del vitto sono quasi inumane: viene riferito che frequenti sono i casi di morte, gravi e frequentissime le malattie»; vi sono «vari casi di decesso provocati dalla scarsità del vitto e da malattie epidemiche diffusisi per deficienza di misure sanitarie». Quanti casi? Secondo gli Italiani, solo ad Arbe morirono 1.500 prigionieri; secondo Belgrado, dieci volte tanto. La provincia di Lubiana denuncia 13.100 persone uccise dagli Italiani su 339.751 abitanti.
Di sicuro i “comunisti titini” non furono da meno e anzi stabilirono nuovi primati, sia che le vittime italiane siano state 20 mila, dando retta ad alcuni, o “solo” meno di 5 mila, come sostengono altri. La maggior parte degli storici si attesta sugli 11 mila morti. Cifre simili anche per gli altri regolamenti di conti: con Ungheresi, Ustascia, Cetnici, popolazioni di origine germanica come gli “Svevi del Danubio” e altre minoranze. Ma per entrare nel campionario degli orrori basterebbero i poveri resti delle oltre mille persone effettivamente estratti dalle foibe istriane.
I padroni della nuova Jugoslavia, fra l’altro, allestirono un altro lager vicinissimo a quello di Arbe, nella dirimpettaia Isola Calva (Goli Otok), per rinchiudervi i propri oppositori interni. Ma quanto furono comunisti nel cacciare gli Italiani? Lo dice lo stesso esodo dei 350 mila da Istria e Dalmazia: un’esemplare operazione di pulizia etnica. Fuori in quanto Italiani, non in quanto presunti fascisti. Operazione che ricalca in grande quelle precedenti di parte avversa e che sarà poi tragicamente replicata vicendevolmente da Croati e Serbi nelle guerre jugoslave del 1991-2001. In tutto ciò, la lotta di classe propugnata dai comunisti è al massimo un pretesto e neppure tanto sbandierato dalla propaganda. Siamo sul terreno del nazionalismo più schietto.
Sappiamo perché i criminali di guerra non furono mai puniti né da una parte né dall’altra. E’ la stessa ragione per cui è calato il silenzio sull’espulsione degli italiani come sulla campagna di Jugoslavia del 1941-43. La spiega nel 1946 Alcide De Gasperi in una lettera all’ammiraglio americano Ellery Stone, comandante delle truppe di occupazione alleate in Italia: «Non posso nascondere che una eventuale consegna alla Jugoslavia di italiani, mentre ogni giorno pervengono notizie molto gravi su veri e propri atti di criminalità compiuti dalle autorità jugoslave a danno di italiani e dei quali sono testimoni i reduci dalla prigionia e le foibe del Carso e dell’Istria, susciterebbero nel paese una viva reazione e una giustificata indignazione».
Non è dunque vero che in Italia non si seppe cosa stava succedendo. Tutto è noto da subito, come risulta altrettanto evidente che bisogna tacere. Chiedere conto dei “veri e propri atti di criminalità compiuti dalle autorità jugoslave” è fuori discussione per una nazione che ha aggredito ed è stata sconfitta. Al massimo si può cercare di sottrarsi a una seconda Norimberga. Poi la questione di Trieste viene faticosamente accomodata. Tito rompe col Patto di Varsavia e diventa un interlocutore importante per l’Occidente e innanzi tutto per l’Italia, a sua volta in prima linea con il Patto atlantico nel fronteggiare la cortina di ferro. Quei fatti diventano innominabili per tutti. Istriani, Dalmati e Giuliani devono rassegnarsi all’oblio. E non solo. Alla stazione di Bologna qualcuno prende a sassate i treni dei profughi. I 109 campi di raccolta, significativamente allestiti perfino in zone isolate della Sardegna, sono circondati dal silenzio se non dall’ostilità. In 80 mila appena riescono a uscire di lì se ne vanno in Canada, Stati Uniti, Argentina, Australia. Capo del governo è sempre De Gasperi. Tanto seppe accoglierli l’Italia del dopoguerra: quella che aveva fatto la resistenza come quella saldamente occidentale e anticomunista. Tanto fu onorata con i fatti la memoria degli irredentisti e delle vittime delle foibe.
“Il 10 febbraio – scrive ancora Fiori – è una data che va ricordata e onorata al pari delle stragi nazifasciste, del giorno della memoria e di ogni altro orrore della storia senza distinzione alcuna. Il ceppo della violenza non ha specifiche appartenenze politiche, crudeltà e violenza sono fini a loro stesse e vestono l’una o l’altra casacca a seconda della possibilità e della convenienza e senza ombra di dubbio la ignoranza negazionista altro non fa che alimentarle ed è per questa ragione che sarei felice nel sapere di amministrazioni comunali concedere contributi alle scolaresche in visita, oltre agli abomini della razza umana testimoniati dai campi di sterminio, alle Foibe di Basovizza perché i nostri ragazzi devono ben comprendere le conseguenze dell’odio”.
Bene. E pertanto giù le bandiere di partito e ai nostri ragazzi diciamo la verità. Quella della storia, non quella della politica. Tutta la storia, non solo delle schegge. “Italiano brava gente” è una favoletta che non merita di essere raccontata, non a noi stessi e tanto meno ai nostri figli. Perciò, andiamo doverosamente a Basovizza e poi andiamo doverosamente nella bella isola di Arbe (Rab in croato): e non solo perché vi nacque San Marino.
Stefano Cicchetti